ENCICLICA FRATELLI TUTTI PERCORSI DI UN NUOVO INCONTRO:  L’ARCHITETTURA E L’ARTIGIANATO DELLA PACE   Alcune riflessioni a partire dall’esperienza della Comunità di Sant’Egidio a Parma , di Bruno Scaltriti

di Riccardo Campanini

 

L’enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” è un testo ampio, che tocca tanti aspetti della vita attuale dei credenti e che a mio avviso, può essere la bussola necessaria per muovere i propri passi, , in un mondo spaesato, disperso nella globalizzazione e che ha perso i propri punti di riferimento tradizionali. E’ in fondo, ma non solo, l’enciclica della pandemia, durante la quale le parole chiave di Papa Francesco sono state: “Nessuno si salva da solo”. In un mondo quindi scosso, impossibilitato ad incontrarsi, l’enciclica propone di considerarsi fratelli (e sorelle) e propone l’amicizia sociale come medicina, per curare le ferite di una società frantumata e caratterizzata da tanti io, che spesso cozzano l’uno contro l’altro. Il capitolo settimo ha come titolo “I percorsi di un nuovo incontro” ed inizia con queste parole: “In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia”. Questa è una sfida che tutti noi siamo chiamati a vivere, anche se spesso ci sembra che la pace sia una realtà oramai acquisita in Europa ed in Italia, a volte persino scontata.

La prima considerazione da fare, a mio avviso, è che ogni cristiano è chiamato a vivere una profonda empatia con gli uomini e le donne di tutto il mondo ed in particolare con quelli che vivono minacciati dalla guerra. Giovanni Crisostomo scriveva 1600 anni fa “I fedeli, a Roma, considerano quelli che sono in India come membra del loro stesso corpo” sottolineando la profonda compassione (da cum patire, soffrire insieme) che deve esistere tra i cristiani, che come in un corpo, gemono se in una parte del mondo si geme. Allora il primo agire, a cui siamo chiamati, per essere artigiani della pace, è quello di portare nel cuore tutti i paesi in guerra, pregando per loro. Siamo chiamati ad essere non artisti acclamati, archistars, capaci di inventare opere inimitabili, ma umili artigiani che producono oggetti di uso quotidiano. Nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni è possibile quindi trovare delle risposte alle domande poste dall’enciclica del Papa. La Comunità di Sant’Egidio ad esempio prega per la pace a Parma il terzo lunedì di ogni mese alle 19,00 nella Chiesa di Santa Caterina, la vecchia Chiesa dei Cappuccini; è una preghiera semplice, ma che permette di non tagliare il sottile filo che ci lega ai paesi nel mondo in cui manca il dono della pace. Etti Hillesum, scrittrice morta nei campi di concentramento diceva “Se si prega per qualcuno, gli si manda un po’ della propria forza“. Pregare per la pace significa quindi mandare un po’ della propria forza a tutti gli uomini e e le donne che soffrono per la guerra. Sarebbe bello se tutte le parrocchie, le associazioni, i gruppi periodicamente pregassero per la pace, per testimoniare nella quotidianità che è possibile vivere da artigiani della pace che non dimenticano i paesi in guerra.

L’enciclica offre altri spunti per vivere questo lavoro umile e quotidiano per la pace, anche in territori dove non c’è la guerra. In più parti l’enciclica cita il perdono come elemento chiave. Siamo abituati magari a considerare il perdono soltanto come un atteggiamento interiore. Ma il perdono ha una grande forza trasformatrice della società. Vorrei citare Bill Pelke, attivita americano contro la pena di morte, che ha fatto del perdono un’arma di cambiamento sociale. Bill Pelke negli anni ’80 del secolo scorso, ha perso sua nonna, Ruth, una catechista molto buona, uccisa da una ragazza quindicenne Paula Cooper in una rapina. Bill lavorava in una acciaieria, era contento che Paula fosse condannata a morte. Ma poi una notte ha avuto questo pensiero. Cosa vrebbe fatto sua nonna? E in quel momento si è insinuato un pensiero nel suo cuore e nella sua coscienza: avrebbe perdonato. E Bill scoprì che il perdono aveva una grade forza risanatrice, il perdono era l’unico sentimento in grado di sanare la ferita di chi perde un proprio caro ucciso. Il perdono può cambiare la società: Bill nell’ordine è diventato amico di Paula Cooper, ha contribuito economicamente affinchè in carcere studiasse legge e diventasse un avvocato, ha ottenuto la sua liberazione, ha ottenuto che, nello Stato dell’Indiana, nessun minorenne venisse più condannato a morte e soprattutto ha cominciato a girare gli Stati Uniti parlando del perdono e fondando l’Associazione Journey of Hope, atraverso la quale tanti uomini e tante donne hanno compiuto il viaggio dall’odio verso il perdono. La storia di Bill Pelke è un ottimo esempio di un artigiano della pace che, nella sua vita, nel suo contesto, ha vissuto il precetto evangelico di amare il proprio nemico e il precetto paolino di vincere con il bene il male. Il perdono però è alla portata di tutti noi, per sanare i piccoli e grandi conflitti delle nostre città, nei luoghi di lavoro, nei nostri condomini, nelle nostre famiglie. Scrive il Papa nell’Enciclica “Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe!”  Anche nella nostra città invece ci sono conflitti piccoli, ma che producono tante lacerazioni. Spesso questi conflitti nascono da piccoli diverbi in cui a cui non si pone rimedio con il perdono, altre volte nascono dall’indifferenza. Spesso tra le famiglie parmigiane di lunga data e le famiglie arrivate da poco, i migranti ad esempio, sono pochi i momenti di scambio, di dialogo e d amicizia e allora nell’indifferenza possono crescere i conflitti, si possono creare i ghetti, allora è importante il lavoro che si può fare nell’accoglienza delle famiglie nella nostra città. E’ il lavoro che cerchiamo di fare attraverso la Scuola della pace, un doposcuola per i bambini della Scuola Primaria che diventa un mondo per stare vicine a tante famiglie per farle sentire accolte e per far crescere l’idea che è possibile coabitare tra persone di differenti culture e religioni. L’aiuto concreto ai bambini diventa uno strumento per costruire relazioni umane più larghe, che come una rete cercano di tenere insieme la società, sfilacciata e frantumata. E anche aiutare i bambini a fare i compiti è un’zione semplice che tanti possono fare. In un tempo, come il nostro, in cui la scuola va avanti tra difficoltà incredibili legate alla pandemia, aiutare i bambini a fare i compiti è un grande lavoro per essere artigiani della pace.

Vorrei concludere questa riflesione su questo paragrafo della “Fratelli tutti” richiamando l’espressione utilizzata dai Vescovi del Sud Africa “la vera riconciliazione si raggiunge in maniera proattiva, formando una nuova società basata sul servizio agli altri”. Sono diverse le attività della Comunità di Sant’Egidio per gli altri, vorrei citare tra le altre, quella verso i senza dimora qui a Parma,che si svolge il lunedì sera in stazione. Sono stato testimone di tante persone, che aiutando i più poveri diventano uomini e donne meno violenti e soprattutto più empatici, più disposti “a mettersi nei panni di” e questo è un sentimento fondamentale per diventare artigiani della pace. Il servizio ai poveri diventa quindi una vera e propria scuola, dove si imparano i sentimenti e i gesti per diventare artigiani della pace. L’empatia, il “mettersi nei panni di” sono i sentimenti del Buon Samaritano, e sono un altro bellissimo modo per essere, tutti noi, artigiani della pace, per costruire una città inclusiva, dove nessuno è lasciato indietro e dove i tanti microconflitti sono sanati dal dialogo e dal perdono.

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