“BECCARIA”: NUOVI DELITTI, VECCHIE PENE di Riccardo Campanini

di Riccardo Campanini

Tra i tanti avvenimenti che hanno caratterizzato il periodo delle festività natalizie, alcuni dei quali senza dubbio “storici” (in primis la morte di Benedetto XVI) un notevole clamore l’ha suscitato, almeno per alcuni giorni, l’evasione di alcuni ragazzi dal carcere minorile “Beccaria” di Milano. Il fatto che gli evasi siano poi stati tutti individuati e riportati in prigione ha fatto rapidamente spegnere le luci della ribalta su questa vicenda, che merita invece di essere ripresa e approfondita, naturalmente non nei suoi aspetti sensazionalistici di “cronaca nera”, quanto piuttosto nella valutazione del corretto rapporto tra violazione della legge e pena da applicare a chi non ha ancora raggiunto la maggiore età.

Un premessa è doverosa: le righe che seguono non vogliono in alcun modo sminuire o, peggio, criticare le modalità, davvero encomiabili e all’avanguardia, con cui il “Beccaria” si fa carico dei minori ivi ospitati, tanto da rappresentare un’eccellenza del nostro sistema di detenzione. Ma, appunto, il problema sta, come si suol dire, “a monte”, e può essere sintetizzato nella domanda se davvero è la reclusione l’unica – o la migliore -forma possibile di rieducazione e reinserimento nella società di chi, ancora minorenne, si è macchiato di reati che prevedono la carcerazione. Lasciando da parte i (rarissimi) casi di colpevoli di delitti particolarmente gravi, per tutti gli altri minori quanto può essere determinante , ma in negativo, passare dietro le sbarre dei mesi, o addirittura degli anni, proprio nel periodo in cui le relazioni sociali sono fondamentali per la crescita e la maturazione verso l’età adulta (come abbiamo, purtroppo, riscoperto “grazie” alla pandemia e allo strascico di malessere psichico e relazionale che l’isolamento e la solitudine hanno lasciato in tanti ragazzi)?. Va aggiunto che analoghe considerazioni valgono per tutto il nostro sistema carcerario, di cui sono bene note le difficoltà e i limiti, che ovviamente vengono ulteriormente amplificati quando si tratta di detenuti non ancora maggiorenni.

Oltretutto – allargando il discorso al di fuori della mura carcerarie – questa difficoltà delle istituzioni di dare al malessere giovanile delle risposte diverse, e alternative, rispetto alla semplice repressione si manifesta anche in altri contesti non meno importanti. Ad esempio, hanno fatto notizia alcune dichiarazione del nuovo titolare del dicastero dell’Istruzione improntate alla severità e all’ordine da garantire nelle aule scolastiche. Intenzioni senz’altro lodevoli, ma che affrontano solo uno, e neanche il più importante dei problemi, o meglio, per usare una terminologia medica, cercano di aggredire i sintomi anzichè le cause del malessere di tanti studenti e studentesse. E soprattutto trascurano le “cure” più efficaci di questo malessere: quelle del dialogo, dell’ascolto, dell’empatia, come ben sanno i tanti insegnanti che – a prescindere dai proclami del Ministro di turno – le praticano regolarmente nella quotidianità della didattica.

Si potrebbe dire in conclusione, con una battuta volutamente provocatoria, che qualcuno vorrebbe delle scuole che somiglino a delle prigioni, mene invece andrebbe fatto esattamente il contrario, ovvero sono le prigioni – specie quelle minorili – che dovrebbero trasformarsi in “scuole”, cioè in luoghi dove si impara non solo e tanto qualche nozione, ma soprattutto a vivere in modo responsabile e rispettoso degli altri, dell’ambiente, del bene comune. A mettere in pratica, in sostanza, quel motto – “I care”, “mi sta a cuore”  – che un educatore di qualche decennio fa ha saputo trasmettere agli allievi “difficili” di una sperduta scuola di provincia e che, incredibilmente, continua a circolare negli ambienti scolastici, e non solo, di tutta Italia; forse (chi può escluderlo?) persino ai piani alti di certi Ministeri.

 

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