RIPENSARE IL MINISTERO ORDINATO di Carla Mantelli

di BorgoAdmin

Se leggiamo attentamente il Nuovo Testamento, ci accorgiamo che il gruppo dei Dodici non si identifica con il gruppo delle apostole e degli apostoli di Gesù. I Dodici sono il simbolo dell’Israele ricostituito, non i “capi” che Gesù ha posto al di sopra degli altri suoi seguaci. D’altra parte, nemmeno Gesù era un “capo”: era uno che predicava il Regno dei cieli e guariva le persone. Non celebrava atti di culto, nemmeno quando si recava in Sinagoga o al Tempio. Ripeteva spesso che ciò che salva è la fede e quando parlava dei compiti di discepoli e discepole usava il lessico del servizio e dell’amore. Non parlava di altari e sacrifici. Ce n’è abbastanza per capire che il ripensamento della figura dei presbiteri (incredibilmente chiamati quasi sempre “sacerdoti” quando questa parola mai è attribuita ad apostole o apostoli, a presbiteri o vescovi nel Nuovo Testamento!) non è solo una necessità dettata dal calo delle vocazioni, dalla solitudine e dalla fatica dei nostri preti. È anche una lettura più attenta della Scrittura ad imporlo. Questo infatti è stato l’obbiettivo del IV convegno nazionale che la rete Viandanti ha organizzato a Bologna all’inizio di questo mese grazie all’infaticabile lavoro del gruppo coordinato dal presidente Franco Ferrari. Un convegno ricco di contributi di altissimo interesse e qualità.

La parte biblica, cui si è fatto cenno più sopra, è stata affrontata dal teologo Flavio della Vecchia mentre lo storico Daniele Menozzi ha tratteggiato l’evoluzione della figura del presbitero dai primi secoli al periodo conciliare. Il primo salto dalla visione neotestamentaria del presbitero a quella attuale si è avuto molto presto: già nel IV secolo assistiamo a una sacralizzazione di queste figure che cominciano appunto a essere chiamate “sacerdoti”. Essi, infatti, si separano da tutto ciò che è definito “profano” e diventano gli uomini del rito, gli uomini che rendono possibile la relazione con Dio celebrando il “sacrificio” eucaristico sul modello dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme che compivano i sacrifici di animali. Un secolo dopo, come logica conseguenza, papa Gelasio esclude ufficialmente le donne dall’ordinazione sacerdotale e, nei secoli successivi, osserviamo un progressivo irrigidimento che implica una forte clericalizzazione (i ministri ordinati hanno il potere su tutti gli aspetti della vita della comunità cristiana) e una decisa professionalizzazione (i ministri ordinati devono avere un preciso percorso di formazione, seguire regole precise riguardo ai gesti da compiere, i riti da officiare ecc.). Tanti sono stati i tentativi di proporre modelli più coerenti con il Vangelo ma nemmeno il Concilio Vaticano II ci è riuscito del tutto. Nei suoi documenti, infatti, si enfatizza l’uguaglianza di battezzate e battezzati nel popolo di Dio ma le contraddizioni emergono con chiarezza.

È stata la teologa canonista Donata Horak a dettagliare queste non sanate contraddizioni illustrando alcuni passaggi del Codice di Diritto Canonico riformato nel 1983. Esso riprende sì la teologia del popolo di Dio di conciliare memoria ma conserva una chiara doppiezza di paradigma quando, per esempio, ripropone una visione della Chiesa come “societas inequalis”, riserva il potere di giurisdizione ai ministri ordinati e, nonostante l’istituzione (facoltativa, a discrezione di vescovi e preti) degli organismi di partecipazione, mantiene di fatto un modello monarchico di esercizio dell’autorità. D’altra parte, perfino in un passaggio della Lumen Gentium (n.27) si parla dei laici come “sudditi”.   In questo contesto, i primi a farne le spese sono proprio i presbiteri perché, come ha raccontato don Paolo Zambaldi di Bolzano in dialogo con la pastora valdese Giuseppina Bagnato, il prete soffre di una crescente burocratizzazione e rischia di mettere in secondo piano l’annuncio della Parola di Dio, è indotto a essere un po’ psicologo, un po’ assistente sociale, un po’ consulente e soprattutto un “dispenser” di sacramenti. Il prete è prigioniero del suo ruolo e del suo potere (ha l’ultima parola su tutto). Ed è anche prigioniero del suo genere perché, volente o nolente, rafforza l’idea del maschio dominante. È infine prigioniero di una formazione carente, superficiale e ideologica. Il modello attuale di ministero presbiterale sparirà, ha aggiunto il teologo don Giuliano Zanchi; quindi, bisogna costruirne un altro a partire dalla consapevolezza che la Chiesa esiste solo perché Gesù possa essere incontrato.

Che fare allora?  Come ha affermato la teologa Cettina Militello, è necessario comprendere che quella del ministero è la questione centrale. Se non si risolve, la chiesa è alla fine. Bisogna abbandonare la pervicace assunzione di modelli del tutto estranei all’origine del cristianesimo. E recuperare i tre doni che grazie ai sacramenti dell’iniziazione cristiana tutti riceviamo: il dono di rendere culto a Dio (sacerdozio comune), di predicare la parola (profezia), di servire (regalità). E magari, come ha affermato don Paolo Zambaldi, imparare qualcosa dalle chiese della Riforma che puntano su una gestione collettiva delle comunità, non hanno il celibato obbligatorio, riconoscono la possibilità di esercitare tutti i ministeri alle donne come agli uomini, riferiscono il ministero al servizio e non al sacramento.

Per chi volesse approfondire:
Martin Ebner, La chiesa ha bisogno di sacerdoti? Queriniana

 

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