COSTITUZIONE: UNA RIFORMA DA RIFORMARE di Riccardo Campanini

di BorgoAdmin

La discussione su un tema di grandissima importanza come quello della riforma costituzionale proposta in questi giorni dalla maggioranza, e destinata ad incidere profondamente sui pilastri su che reggono la nostra democrazia, dovrebbe fondarsi su alcuni presupposti certi e indiscutibili. Ovviamente non è così, visto che la proposta di riforma – in sé legittima visto che è prevista dalla stessa Costituzione –è accompagnata e giustificata da considerazioni inesatte o addirittura false; la più clamorosa di queste “bufale” – purtroppo accettata come ovvia da buona parte dell’opinione pubblica – è che l’Italia deve diventare come “ gli altri Paesi europei”, nei quali (così si dice)  il Primo Ministro viene scelto direttamente dagli elettori e, congiuntamente, poche ore dopo la chiusura delle urne si sa già chi ha vinto (e perso) le elezioni. Forse chi afferma disinvoltamente queste “verità” ha in mente la Russia di Putin o altri Stati non esattamente ascrivibili al novero delle democrazie, perché, guardando soltanto ai più importanti paesi europei, si può facilmente verificare che: in Spagna, a oltre tre mesi dalle elezioni di fine luglio, non si è ancora formato un Governo ed è probabile che il Primo ministro non sia il leader del Partito che ottenuto più voti;  in Germania il Governo di coalizione in carica è frutto di un lungo e faticoso accordo postelettorale tra tre partiti presentatisi alle elezioni ognuno per proprio conto e senza nessuna intesa preliminare; in Gran Bretagna il partito al Governo, pur disponendo di una solida maggioranza, ha cambiato già 3 Primi ministri in 4 anni. -e si potrebbe proseguire con altri simili esempi (come quelli di Belgio o Polonia). Paradossalmente, l’unica importante democrazia occidentale – a parte la Francia, che è una Repubblica presidenziale e quindi con un sistema istituzionale profondamente diverso – nel quale sia il leader di Governo sia la maggioranza che lo sostiene corrispondono in pieno all’esito delle elezioni è proprio l’Italia, che quindi dovrebbe essere quella meno interessata ad una riforma istituzionale finalizzata ad assicurare entrambe queste condizioni. Perché, dunque, da parte dei partiti della maggioranza c’è tanta enfasi sulla necessità di questo cambiamento così radicale dell’assetto istituzionale? Sicuramente pesa la recente storia italiana, caratterizzata spesso da cambi di maggioranza, governi “tecnici”, debolezza degli esecutivi, e così via. Ma, appunto, si tratta di una fase storica che sembra ormai essersi conclusa con le elezioni dello scorso anno. E soprattutto, l’insistenza sulla necessità di una riforma istituzionale rivela un equivoco di fondo: che, cioè, la stabilità dell’esecutivo significhi necessariamente capacità di governo, buon funzionamento delle istituzioni e quindi benefici diretti e visibili per i cittadini. In teoria, forse, può anche essere così, ma, ad esempio, gli anni del “boom” economico e delle grandi riforme durante i quali l’Italia è diventato in poco tempo uno dei Paesi più avanzati sia sul piano economico che su quelli dei diritti sono stati caratterizzati da governi estremamente fragili e di breve durata (in media meno di un anno). E, specularmente, un futuro governo rissoso e inconcludente ma “condannato” a durare cinque anni, che tira avanti solo per paura del risultato delle urne, sarebbe davvero quello che serve ai cittadini?

Saggiamente i costituenti hanno previsto un iter lungo e complesso per la modifiche alla Carta costituzionale, compreso il referendum confermativo in caso di approvazione da parte di una maggioranza non qualificata. Il tempo per correggere anche sostanzialmente la proposta oggi sul tappeto, insomma, ci sarebbe; l’importante è ragionarci su con razionalità e buon senso, lasciando perder slogan e frasi fatte,  e magari ascoltare il parere di qualche esperto; in caso contrario, come ha ipotizzato qualcuno, l’iter di approvazione della riforma costituzionale può trasformarsi in una una “traversata nel deserto” –  e certo non si riferiva al breve (e tutt’altro che deserto) tragitto che separa Montecitorio da Palazzo Madama.

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