BANCO DI SCUOLA O BANCO DELL’IMPUTATO?  di Riccardo Campanini

di BorgoAdmin

In Sicilia, patria di Luigi Pirandello, un’intera classe deve ripetere l’esame di maturità a causa del ricorso di un’alunna che ritiene di essere stata discriminata al momento della prova orale, ma l’esito del secondo esame è quasi identico per tutti gli esaminandi, compresa la “colpevole” della ripetizione. In Portogallo, patria di Fernando Pessoa – il poeta dalle molte identità fittizie – il premier Antonio Costa viene scambiato col quasi omonimo Ministro Antonio Costa Silva in un’intercettazione telefonica e a causa di questo errore di trascrizione è costretto a dimettersi, pur non risultando imputato nell’inchiesta su una presunta vicenda di corruzione. Se non fossero vere, le vicende appena descritte sembrerebbero davvero frutto della fantasia dei due citati geni letterari, a conferma del fatto non vi è nulla di più romanzesco della realtà. Ma, a parte queste curiose analogie tra letteratura e cronaca, vi è un elemento comune tra le due vicende: ovvero il coinvolgimento – con esiti in verità non particolarmente felici –  della magistratura Se nel caso della falsa indagine su Antonio Costa si è trattato, così pare, di un errore materiale, particolarmente grave visto che ha provocato un terremoto politico (e proprio la delicatezza della vicenda avrebbe dovuto indurre alla massima attenzione e prudenza), il discorso sul caso della “doppia maturità” è un po’ più complesso e induce a diverse considerazioni.

La prima, parte dal ben noto detto “summum ius, summa iniuria”, che risale all’antica Roma – e i Romani di queste cose se ne intendevano, visto che dopo 2000 anni il loro diritto viene ancora studiato all’Università; come a dire che a voler essere troppo giusti si finisce talvolta col fare dei grossi torti, come appunto nel caso sopra citato: per soddisfare le (forse) legittime pretese di una sola studentessa un’intera classe è stata costretta a ripetere a distanza di alcuni mesi l’esame di maturità, con quanto stress, fastidio e preoccupazione è facile immaginare. Ma soprattutto, dietro al ricorso alla giustizia amministrativa contro l’esito di un esame vi è un’idea distorta del rapporto tra studenti (e genitori) da una parte e insegnanti dall’altra, quasi si trattasse di una contrapposizione tra interessi e “fazioni”, e non invece – come dovrebbe essere – di una alleanza educativa tra genitori e docenti per favorire la crescita intellettuale e civile dei ragazzi e delle ragazze. Contrapposizione che, nei casi-limite, porta purtroppo ai sempre più frequenti episodi di violenze di genitori nei confronti di insegnanti “colpevoli” di aver ripreso i loro figli o di aver dato loro delle insufficienze.

In questi giorni, anche a seguito dell’ennesimo terribile femminicidio, si sottolinea giustamente l’importanza di promuovere in tutte le sedi l’educazione al rispetto e ad un’affettività matura e consapevole. E quale tema sarebbe più adatto di questo per una collaborazione virtuosa tra scuola e famiglia, mirata appunto ad educare, in particolare i maschi, a distinguere l’amore da quello che amore non è, anzi è il suo contrario, ovvero il possesso, la sopraffazione, la violenza? O, per dirla con le parole di una famosa canzone di quasi 50 anni fa – evidentemente certi problemi sono tutt’altro che nuovi – “si dice amore, però no, chiamarlo amore non si può”. E che a nessuno venga in mente –magari paragonando questo testo a quelli, ben più elevati, di Pirandello o Pessoa – che in fondo sono solo canzonette.

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