SUICIDIO ASSISTITO E FINE VITA: RIFLESSIONI CLINICHE E BIOETICHE di Vittorio Franciosi, Presidente del Centro di Bioetica “Luigi Migone”

di BorgoAdmin

Affronterò il tema del suicidio medicalmente assistito (SMA) nella personale prospettiva esperienziale di medico oncologo aderente ad un’etica centrata sul primato della dignità umana fondata sulle relazioni interpersonali. Nella terminologia oncologica e delle cure palliative si usa il termine di “dolore globale” per descrivere un’esperienza soggettiva e totalizzante di dolore fisico, psicologico, spirituale e morale. Nella fase finale dell’esistenza umana, le relazioni affettive sono il luogo dell’esperienza morale delle persone sofferenti, ne influenzano la qualità della vita e le scelte morali: relazioni intrise di amore e rispetto producono sollievo e speranza; relazioni di scadente qualità portano alla solitudine e alla disperazione. Senza il salvagente di cure efficaci e relazioni empatiche e compassionevoli il dolore globale e la solitudine fanno annegare l’individuo nel mare della disperazione, mortificano la sua dignità, che trova il senso profondo nelle relazioni, alimentano la cultura mortifera e antisolidaristica “di vite scartate, indegne, inutili se non economicamente produttive”, condannata da Papa Francesco e aprono la strada a scelte suicidarie ed eutanasiche. Mi domando se una persona incarcerata nel corto circuito del dolore globale, della mancanza di cure efficaci e di relazioni empatiche sia realmente libera quando chiede il SMA e se tale richiesta, raramente irremovibile, più spesso ambivalente e fluttuante, non esprima soprattutto un bisogno di aiuto, di cure efficaci, di relazioni affettive, di nuove speranze realistiche, piuttosto che di morte. Prima di liquidare una richiesta suicidaria con un biglietto di sola andata in Svizzera occorre contestualizzare la situazione esperienziale concreta in cui avviene la richiesta e verificare il livello delle terapie offerte fino a quel momento e la qualità delle relazioni di cura.

E’ doveroso garantire efficaci terapie del dolore e cure palliative, come prevedono le leggi 38/2010 e 219/2017, e denunciare la loro insufficiente applicazione da parte del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e la difformità regionale, soprattutto a livello domiciliare, per l’insufficiente investimento organizzativo ed economico. La legge 219/2017 pone al centro la “dignità della persona” (non la sua “malattia”), di cui valorizza l’autonomia decisionale in un contesto di “relazione di cura” fra il paziente e l’equipe curante e propone la dichiarazione anticipata dei trattamenti (DAT) e la pianificazione condivisa delle cure (PCC), per realizzare un’”autodeterminazione relazionale” del paziente nei confronti di tutti gli atti medici: dall’inizio delle terapie sintomatico-palliative, compresa la sedazione palliativa, all’interruzione o sospensione dei trattamenti vitali, come la nutrizione, l’idratazione e la respirazione artificiali. Pur in assenza di una legge del Parlamento, la sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale ha, di fatto, aperto la possibilità di accedere, in Italia, al SMA, in specifiche circostanze. Questa sentenza, dopo quasi 5 anni, presenta ancora molte questioni irrisolte di natura etica e attuativa. Dal punto di vista etico, se da una parte intercetta situazioni che potrebbero risolversi secondo le vie suicidarie classiche, dall’altra aumenta il rischio di una deriva morale delle scelte del fine vita equiparando l’idea della morte a qualsiasi “servizio” esigibile ed erogabile dal SSN. Dal punto di vista attuativo fanno discutere le interpretazioni di almeno due dei quattro requisiti che devono essere compresenti (persona tenuta in vita da trattamenti artificiali; affetta da una patologia irreversibile; fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; pienamente capace di intendere e di volere). In particolare, la valutazione della “intollerabilità”, il più soggettivo dei quattro, richiede “tempo”, sia ai valutatori che al paziente. Il criterio del tempo divide chi ritiene che non si debbano mettere paletti temporali rigidi, poiché la volontà delle persone è fluttuante fra il “desiderio di volere vivere” e il “desiderio di volere morire” e coloro, come l’Associazione Luca Coscioni, promotore di una proposta di legge regionale di iniziativa popolare in corso di audizione in 9 consigli regionali, che vorrebbero tempi brevi e certi (circa 40 giorni) per completare l’intero iter attuativo del SMA. L’altra interpretazione problematica si riferisce ai “trattamenti di sostegno vitale”, che ha determinato soluzioni opposte in due regioni italiane, a causa del significato diverso attribuito alla chemioterapia. Altrettanto problematica è la situazione dei Comitati Etici per la Clinica, che rispetto ai Comitati Etici per le Sperimentazioni, hanno competenze consultive più specifiche nelle situazioni cliniche, ma che, ad oggi, sono istituiti solo in poche regioni italiane. Inoltre non sono chiare le procedure per accedere alle strutture pubbliche del SSN ai fini della “verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio” e la rimborsabilità del SMA. Un altro problema, di ordine pratico ma con radici etiche e deontologiche, è la reperibilità da parte del SSN di medici disponibili ad attuare la fase finale del processo, o ”aiuto medico a morire” vedendo riconosciuta, giustamente, al medico la ”obiezione di coscienza” o meglio la “scelta in coscienza”. La mia posizione è tendenzialmente contraria al SMA e ad un intervento del legislatore su questa materia, perché penso che la maggior parte delle situazioni cliniche ed esistenziali possano trovare una risposta nella cornice della legge 219/2017, nella realizzazione della rete delle cure palliative e nella relazione di cura. Inoltre, dal punto di visto deontologico mi sento di esprimere una “scelta in coscienza” che prevede “l’aiuto nel morire” ma non quello a morire. Ritengo che, nel nuovo scenario aperto dalla sentenza 242/2019, che di fatto rende possibile il SMA, le prospettive etiche dominanti, quella utilitarista, che non vede nessuna differenza morale nelle conseguenze dell’omissione/sospensione di un sostegno vitale sproporzionato e l’azione attiva del terminare una vita umana, quella libertaria “pro-choice”, che assolutizza il valore dell’autodeterminazione e quella “pro-life”, dell’assoluto morale della vita, mostrino i loro limiti nell’affrontare le specifiche situazioni cliniche ed esistenziali del fine-vita perché sembrano tralasciare un valore che considero ancora più importante della vita stessa: la dignità della persona, che trova compimento e significato all’interno delle relazioni interpersonali. E’ per queste motivazioni che, pur esprimendo una “scelta in coscienza” che non prevede l’aiuto a morire del SMA e in parziale disaccordo anche con la posizione espressa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, nella parte finale della Lettera “Samaritanus Bonus” del 2020, ritengo che la relazione fra il medico e il paziente richiedente il SMA non debba mai essere interrotta e che il medico possa “scegliere di restare lì”, non come “un funzionario del SSN”, ma come “una persona che non abbandona e mantiene una relazione affettiva” fino all’ultimo istante della vita.

 

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