LA SCUOLA E L’EDUCAZIONE ALLA DIFFERENZA (A TUTTE LE DIFFERENZE) di Francesco Camattini

di BorgoAdmin

Mi è stato chiesto un contributo – in veste di educatore e di dirigente scolastico – rispetto a quanto oggi si “muove” nella scuola sul tema della promozione della pari dignità di tutte le persone con particolare riguardo alle azioni tese al contrasto della violenza di genere. Visto il tema, avverto che dirò la mia  in qualità di maschio, bianco, di oltre cinquant’anni e che di conseguenza il mio punto di vista è inevitabilmente incarnato in quello che sono e vivo. Lascio a chi legge stabilire se da questo mio particolare osservatorio io sia più o meno credibile. Comincio con il dire che la mia educazione alla “differenza” (anche quella di genere) è da “autodidatta”. E’ avvenuta un po’ per caso – e solo successivamente per scelta – a partire dalla tarda adolescenza, grazie ad incontri significativi, ad ambienti significativi, a discussioni e litigi altrettanto significativi; specialmente con le persone più progressiste quelle che, mie coetanee, ragionavano già meglio di me e in modo più libero. Aggiungo che i miei genitori non mi hanno mai inculcato idee retrive ma sempre incoraggiato alla libertà di pensiero e alla curiosità. Per fortuna i miei incontri, soprattutto nell’ambiente scoutistico e nei successivi anni dell’impegno da obiettore di coscienza mi hanno sottratto (di ciò sono convinto)  ad un modello stereotipato e prevalente rispetto a tutte le differenze: quelle di genere,  quelle legate alla provenienza geografica e quelle legate a chi soffre una condizione fisica o psichica più complessa di altri e altre. Faccio questa premessa per due motivi: il primo per dire che non si può parlare di dignità e di rispetto tra persone senza prima dare una cornice al presente, alle forze culturali e sociali che vi si muovono, alle tensioni che portano in una direzione – svilire, annichilire l’altro-  o in un’altra – ovvero percepire l’altro come soggetto, come specchio, come occasione di compagnia e fonte di forza morale e spirituale- ; il secondo motivo, altrettanto importante, è che è stata proprio la mia educazione che ha cambiato il mio modo di pensare, osservare, comprendere il mondo. Sono gli incontri che ho fatto ad avermi restituito – mi auguro – una certa consapevolezza sul tema di cui mi è stato chiesto un parere in queste poche righe.

Fatta questa premessa: che ruolo ha la scuola rispetto a tutto questo? Provo a lanciare una “pista”. La scuola dovrebbe promuovere la capacità di smascherare i meccanismi della violenza del quotidiano ed educare alla complessità (la realtà si vive e si guarda senza sconti, ovvero senza semplificazioni). Provo a spiegarmi. Nel nostro tempo, la scuola dovrebbe contribuire a mettere in discussione modelli e pratiche sociali, atteggiamenti culturali e cortocircuiti del pensiero che ci impediscono di entrare veramente in relazione con l’altro e con l’altra, in una situazione di piena parità di diritti (e di doveri). In una parola dovrebbe tentare di smascherare la violenza – agita o simbolica – che inevitabilmente circola a scuola e nella società.La difficoltà di decifrare la cultura in cui siamo immersi, i valori che essa sottende e quelli che abbiamo più o meno esplicitamente o implicitamente scelto, è un primo ostacolo. Aggiungo che la violenza rispetto alla diversità in generale e, in particolare, alla differenza di genere (violenza che spesso travolge l’altro) è  profondamente legata (oltre al modello culturale prevalente) al modello di educazione che proponiamo più o meno consapevolmente, modello ormai sceso nel dna della nostra società. La violenza inevitabilmente circola tra le aule, tra docenti e ragazzi/e, nelle relazioni tra pari e nelle relazioni lavorative (pensate a tutto quello che si sta muovendo intorno al “voto” nella scuola, alla piccola rivoluzione che potrebbe portare finalmente ad una valutazione formativa, che promuova la persona e non la svilisca, oltre la violenza riduzionistica del voto numerico che tanto stressa i giovani).

La scuola è fatta di persone e di relazioni: in primo luogo è l’atteggiamento e l’autoconsapevolezza dell’adulto che dovrebbe cominciare a cambiare. Chi educa ed insegna dovrebbe ricercare momenti di riflessione ed esplicitazione (momenti formali o non formali)  rispetto ai valori veicolati dalla propria azione formativa/educativa.  Sia in termini “disciplinari” sia rispetto alla propria testimonianza personale. In seconda istanza occorre promuovere una vera e propria educazione alla lettura dei valori che viviamo nel quotidiano, assieme ai propri studenti/studentesse, cercando di chiarire la portata e le conseguenze di quelli che promuovono più verosimilmente una cultura violenta, che esclude l’altro (fisicamente o simbolicamente) dall’orizzonte dell’umano. In una commovente premessa di un suo libro dal titolo  Noi siamo tempesta (Salani editore)  Michela Murgia si rivolge agli educatori, al mondo della scuola e si chiede se i modelli di eroi che condividiamo a scuola, siano spesso modelli di eroi solitari, (le cui amicizie sono si importanti ma che hanno  sempre funzione gregaria) abituati ad avere un nemico e a ricevere gloria solo con l’annichilimento del nemico stesso. Sono eroi maschi, che hanno qualità eccezionali, che hanno un “x factor” che giocano da soli e arrivano alla vittoria da soli. Si chiede la Murgia: che valori educativi sono sottesi a questo tipo di eroi? Che cosa insegnano ai nostri ragazzi/e?  Secondo l’autrice all’interno di questa cornice di storie, si cresce più competitivi che collaborativi, più guardinghi che fiduciosi, più rivendicativi che riconoscenti. La storia, prosegue la Murgia, è fatta dall’esatto contrario, da esempi di collaborazione di cooperazione per raggiungere obiettivi condivisi. Azzardo, per raggiungere un “bene comune”.

Torno alla mia proposta. Alla promozione della capacità di smascherare i meccanismi della violenza, condividendone “pubblicamente” gli effetti, aggiungo un secondo tassello, difficile e faticoso – ma a mio avviso anche più importante – ovvero l’ “educazione alla complessità”. La violenza è spesso una scorciatoia, una “porta larga”, facile da trovare e da attraversare; il rispetto invece è faticoso, va ricercato, e passa attraverso una “porta stretta”  non semplice da individuare né da attraversare. La consapevolezza della fatica che producono le relazioni, l’impossibilità di ridurre a poche considerazioni l’altro/l’altra, non va mai abbandonata e va “annunciata” ai nostri ragazzi/e anche come testimonianza personale, con la nostra azione quotidiana nelle classi, tra i giovani. Dobbiamo avere la forza di testimoniare che l’altro/a si può incontrare solo con l’accettazione della fatica della complessità.  Esercitarsi alla differenza, alla fatica del vero confronto, alla difficoltà di integrare diversi punti di vista, alla frustrazione della non comprensione, fare pratica di “conseguenze” (a partire da quello che mi sembra giusto/sbagliato) è, a mio avviso, l’unica via da intraprendere per scongiurare la violenza e promuovere la dignità tra le persone. La Scuola vera, quella della nostra meravigliosa Costituzione non promuove un modello competitivo ma democratico e collaborativo. Per questo sono convinto che la sfida non cominci a scuola ma davanti allo specchio di ciascun adulto chiamato ad educare, ovvero a svolgere il compito più difficile ed arduo che ci sia.

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