I LIMITI DEL PREMIERATO “ALL’ITALIANA” di Guglielmo Agolino

di BorgoAdmin

 

  1. Il 3 novembre scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge di revisione degli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione con l’intento di modificare la forma di governo italiana da parlamentare al c.d. premierato elettivo. Gli obiettivi del Governo, esplicitati sin dal titolo del disegno di legge, sarebbero: a) l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri; b) il rafforzamento della stabilità del Governo; c) l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato, il 15 novembre, ha autorizzato la presentazione del disegno di legge alle Camere, così è iniziato l’iter presso la Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica che ha dato il via all’istruttoria legislativa con un ciclo di audizioni di esperti.
  2. Il fine perseguito dalla riforma, per il tramite dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, sarebbe, dunque, quello di garantire la stabilità di governo. Tentativo, quello della stabilità, che, almeno nella sua ispirazione di fondo, accomuna diverse proposte di revisione costituzionale dalla fine degli anni ’90 a oggi (Renzi 2016, Berlusconi 2006, Bicamerale D’Alema 1997). Non può destare scandalo, dunque, se anche l’attuale Governo abbia indicato come la “madre di tutte le riforme” quella sul c.d. premierato elettivo. In effetti, le disfunzioni della nostra forma di governo, soprattutto a seguito del crollo del sistema dei partiti e del sistema politico della c.d. “prima Repubblica”, hanno raggiunto soglie patologiche: l’abuso della decretazione d’urgenza come strumento ordinario della legislazione, il monocameralismo di fatto (nel quale una Camera decide e l’altra ratifica), il continuo uso della questione di fiducia e dei maxiemendamenti, con cui nei fatti il Governo ha marginalizzato il ruolo delle Camere, non possono essere più ignorati. A ciò, peraltro, deve aggiungersi la necessità di Governi stabili in grado di favorire l’autorevolezza dell’Italia nel contesto dell’Unione europea, a fronte anche di procedimenti che sono sempre più “euro-nazionali” (Manzella-Lupo) come, da ultimo, dimostra il PNRR.
  3. Resta ora da capire, pertanto, se il disegno di legge del Governo sia in grado di attingere tali fini, o meno. Essenzialmente per tre ragioni, mi pare, che l’iniziativa non colga pienamente nel segno.

3.1 Non si indirizza né verso i modelli presidenziali o semipresidenziali, né verso il cancellierato o altre esperienze di parlamentarismo razionalizzato. Infatti, delle due l’una: tertium non datur. In questo senso vale, sicuramente, l’obiezione che si viene facendo da più parti sull’unicità dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio che, se approvata, farebbe della forma di governo italiana un unicum. L’unica esperienza precedente in tal senso, quella di Israele, è stata abbandonata rapidamente, dopo una sola legislatura, per i vuoti d’aria che creava.

3.2 La semplice elezione diretta (per cinque anni) del Presidente del Consiglio non è, di per sé sola, garanzia di stabilità dell’Esecutivo. Difatti, oltre all’elezione diretta del Presidente del Consiglio, la riforma non consegna al Presidente eletto i poteri tipici del Primo ministro (es. la revoca dei ministri) consentendogli di incidere realmente sull’indirizzo politico e sulla stabilità del governo. In altre parole, non trasforma la leadership dell’esecutivo in premiership di governo. Al contrario, semmai, il disegno di legge mentre si preoccupa di rafforzare il Presidente del Consiglio, lo indebolisce quando “in caso di cessazione della carica” prevede che egli possa essere sostituito da un “second best”, scelto però solo all’interno della maggioranza di governo (e tra i parlamentari in carica). Circostanza che, tenuto conto dell’attuale sistema politico multipartitico e coalizionale, nelle fasi di crisi interne alla maggioranza di governo, renderebbe il Presidente eletto ostaggio dei partiti della sua coalizione, che, creando peraltro crisi al buio, potrebbero far valere nei suoi confronti la spada di Damocle della sostituzione. Non solo, tale disposizione impedirebbe persino al Presidente della Repubblica di intervenire, come la storia recente dimostra, nei casi eccezionali e di grave crisi (economica, sanitaria, ecc.), incaricando personalità autorevoli (Monti, Draghi), ma fuori dal circuito della maggioranza parlamentare, per la formazione di Governi di “unità nazionale”.

3.3 Questo ultimo aspetto, mi consente di venire alla terza ragione per la quale la riforma non coglie nel segno. Difatti, è falso affermare (come si sente più volte dire in queste settimane dai sostenitori della riforma), che essa non incide sui poteri del Capo dello Stato. Lo fa, eccome: elimina il potere di nomina dei senatori a vita, lo obbliga a nominare il Presidente eletto e a sciogliere le Camere in caso di crisi non risolta in seno alla maggioranza. Vengono, in altre parole, diluiti, e non di poco, i poteri di cui “il motore di riserva” (Esposito), la Presidenza della Repubblica, gode nei momenti di crisi e che la storia repubblicana insegna essere stati fondamentali. Non rimarrebbe, in definitiva, nulla, o quasi, di quel potere di indirizzo politico-costituzionale (Barile) o dei poteri a fisarmonica del Presidente (Amato) che la dottrina pubblicistica ha evidenziato in passato.

  1. Se è vero, come è vero, che la fortuna delle forma di governo risiede, al fondo, nel delicato compito di tenere in equilibrio i poteri dello Stato (Elia), la riforma, allora, necessita di miglioramenti. In questo senso, sarà essenziale l’iter che compirà il disegno di legge in Parlamento e il dialogo, essenziale quando si mette mano alla Carta costituzionale, tra maggioranza e minoranza (evito, causalmente, di usare il termine opposizione). Quest’ultima, anziché collocarsi in uno sterile Aventinismo, potrebbe scendere in campo cercando di far comprendere le molte ragioni a sostegno di una modifica della riforma. A partire da alcuni proposte, già in campo: sfiducia costruttiva; attribuzione del potere di revoca dei Ministri al Presidente del Consiglio (di cui dispongono invece Sindaci e Presidenti di Regione); premierato non elettivo ma con l’indicazione del candidato Presidente sulla scheda elettorale (Clementi). Su una cosa, invece, l’arco parlamentare farebbe bene a coalizzarsi: non incidere così a fondo sui poteri del Presidente della Repubblica, unica Istituzione che ha dimostrato di sapere reggere davanti alle tempeste. In un Paese “dalle passionalità forti e dalle strutture fragili”, sotto questo profilo ancora troppo simile al tempo in cui Moro lo descriveva con queste parole, comprimere eccessivamente a vantaggio dell’Esecutivo lo spazio e i poteri del Capo dello Stato, mi pare, sia da evitare.

 

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