PROSPETTIVE E PROBLEMI DELL’ECONOMIA ITALIANA di Franco Mosconi

di BorgoAdmin

 Settembre è tradizionalmente il mese delle previsioni economiche per tutti i paesi dell’Unione europea (UE). Questo 2023 non sfugge alla regola e la Commissione europea non più tardi dell’11 settembre scorso ha scritto: “L’economia dell’UE continua a crescere, anche se con minore slancio. Le previsioni di estate correggono infatti in basso la crescita dell’economia UE rispetto alle previsioni di primavera: dall’1% allo 0,8% per il 2023 e dall’1,7 % all’1,4% per il 2024, mentre la crescita prevista nella zona euro scende dall’1,1% allo 0,8% per il 2023 e dall’1,6% all’1,3% per il 2024”. E l’Italia? Sempre da quelle che, nel gergo di Bruxelles, vengono chiamate le Previsioni economiche di estate apprendiamo che l’Italia, dopo una crescita del PIL pari al 3,7% nel 2022, crescerà dello 0,9% nel 2023 e dello 0,8% nel 2024. Nel contempo, l’inflazione resta un problema: 5,9% nel 2023 e 2,9% nel 2024; dati macroeconomici aggregati che nascondono, al loro interno, incrementi dei prezzi al consumo molto più elevati per quello che abitualmente viene chiamato il “carrello della spesa” (intorno al +10% secondo i dati ISTAT), e che tocca davvero da vicino la vita quotidiana delle famiglie, a cominciare da quelle a basso reddito.

Di fronte alle ormai classiche pubblicazioni di Bruxelles, anche il discorso pubblico manifesta le sue – diciamo così – regolarità: ci si accapiglia, fra maggioranza e opposizione (variamente assortite), su qualche decimale di PIL in più o in meno. Tutto legittimo, naturalmente. A una condizione, però: quella di non dimenticare alcuni nodi fondamentali dell’economia italiana. Per semplicità, possiamo ricordarne due: rispettivamente riconducibili alla testa e alla coda della società. Primo. Le crescenti diseguaglianze nella distribuzione dei redditi rappresentano un gigantesco problema. I dati che la Caritas italiana, grazie al lavoro di tutte le Caritas diocesane, periodicamente pubblica sul numero di persone che frequentano le “Mense del povero” e che, più in generale, vivono in condizioni di povertà (assoluta o relativa), sono numeri impressionanti. Stiamo parlando di milioni di italiani. Che cosa deve fare lo Stato per prendersi cura, in maniera sistematica e generalizzata, di chi non ce la fa? (Certo, aiutato in ciò dal Volontariato e dal Terzo Settore, ma è la mano pubblica che per prima deve garantire un Welfare State al passo coi tempi). Chi invece ce la fa, almeno per ora, sono le nostre imprese di eccellenza (siamo passati al secondo punto). Si tratta di imprese attive principalmente sui mercati internazionali e capaci di presidiare le famose “nicchie”, che per dare frutto devono essere di natura globale. L’insieme di queste eccellenze – non poche parmensi ed emiliano-romagnole – contribuisce a formare quella che è la seconda manifattura d’Europa, dopo la Germania e davanti (ma di pochissimo) alla Francia. Accade, però, che la Francia superi ampiamente l’Italia in tutti gli “investimenti in conoscenza” (ricerca e sviluppo, istruzione, numero di laureati, ecc.). La domanda, giunti a questo punto, diviene: per quanto tempo ancora il nostro Paese potrà sopravanzare nel valore aggiunto manifatturiero la Francia se investiamo di meno, rispetto ai cugini d’Oltralpe, in conoscenza? Al contrario dell’iconica pubblicità sui diamanti, la prosperità non “è per sempre”.

Sono solo due esempi (un nuovo Welfare, la competizione europea e globale nella manifattura di qualità), ma sufficienti – crediamo – a dire a noi tutti che sotto la superficie degli incrementi del PIL (spesso, in verità, assai modesti per quel che riguarda l’Italia) vi sono giganteschi sommovimenti economici e sociali; sommovimenti che cambiano la vita delle persone e delle famiglie, delle imprese e delle comunità territoriali. Essi vanno, innanzitutto, compresi; dopodiché, vanno introdotti con più decisione nel discorso pubblico affinché contribuiscano a generare le più appropriate decisioni di policy.

 

Dalla stessa sezione

Lascia un commento