IL TERZO SETTORE NEL PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA di Alessandro Bosi

di BorgoAdmin

Per gentile concessione di Alessandro Bosi pubblichiamo la prima parte di una ricerca intitolata Storia e identità del Terzo Settore di cui è prevista la pubblicazione in un volume intitolato Il terzo Settore nel parmense.

  1. La formazione nelle politiche di sostegno all’occupazione

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), concepito all’interno del programma europeo Next Generation EU (Ngeu), trasmesso dal Governo al Parlamento il 25 aprile 2021, dedica ampio spazio al rapporto tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo Settore. Organizzato in sei missioni, il Piano prevede un insieme di riforme dirette a favorire l’inclusione sociale e a ridurre i divari territoriali attraverso interventi che riguardano la pubblica amministrazione, la giustizia, la semplificazione normativa e le regole sulla concorrenza. Nella quinta missione, Inclusione e Coesione, mentre individua nelle politiche di sostegno all’occupazione il perno della modernizzazione per un’economia sostenibile e digitale, il Piano assegna precisi compiti al Terzo Settore. Il Piano ritiene che, nel sostegno all’occupazione, gli investimenti del passato siano stati scarsi e ne documenta le conseguenze ricordando i ritardi accumulati tra il 1999 e il 2019 rispetto a Germania, Francia e Spagna nella crescita del Pil e nel conseguente aumento della popolazione che vive nello stato di povertà assoluta. Sono soprattutto i giovani dai 15 ai 29 anni e le donne, prevalentemente nel Mezzogiorno, a pagarne le conseguenze. Oltre agli scarsi investimenti, questo quadro è dovuto a una formazione concepita per un personale specializzato secondo logiche superate dagli anni Ottanta del secolo corso quando matura la convinzione che il lavoro sia irriducibile allo schematismo di qualsiasi programmazione o di un rigido modello organizzativo valido per tutti. Si guarda piuttosto a un personale che, in luogo di una preparazione specializzata, ma rigida, riceva una formazione che ne consenta la riqualificazione e l’affinamento delle competenze nell’esercizio della professione. La formazione non è più concepita come un tempo di vita definito: essa ci accompagna nel crescere con la consapevolezza di avere modeste capacità nel prevedere che cosa accadrà nel prossimo domani, ma persuasi di come sia decisivo il nostro impegno nell’assumere la cura da riservare a ogni nuovo inizio. Alla svolta del secolo, questi indirizzi sono assunti dalla Strategia di Lisbona[1], un programma di riforme approvato dai paesi dell’Unione europea nel marzo del 2000, e dal rapporto mondiale dell’Unesco del 2005[2]. Comune era la convinzione che la formazione non consiste nel dotare le persone delle informazioni necessarie per assolvere ai loro compiti, ma nel favorire la capacità di ricercare e acquisire le conoscenze più proficue per sé, per l’ambiente lavorativo e per la società. L’insieme dei lavori realizzati nelle assise di Lisbona, come ho documentato altrove[3], muoveva dall’assunto che viviamo nella società della conoscenza, un’espressione controversa, ma entrata nell’uso corrente, rispetto alla quale, se confrontata agli Usa, al Giappone, alla Cina e, per certi aspetti, all’India, l’Europa è in ritardo. Il divario sarebbe dovuto a un difetto di conoscenze disponibili perché i paesi dell’Europa, carenti quanto a organizzazioni produttive globali, scontano un ritardo nell’uso delle tecnologie più avanzate e di conseguenza non le richiedono ai singoli individui penalizzando così l’intero sistema della formazione e dell’istruzione. Lisbona 2000 ha indicato la necessità di introdurre nel sistema produttivo più manodopera intellettuale che manuale. Rovesciando un’antica gerarchia concettuale, l’Europa sarebbe diventata la più competitiva e dinamica economia entro il 2010 secondo un auspicio più volte ripetuto, ma che, per ora, ha richiesto numerosi aggiornamenti della data indicata. Naturalmente si potrebbe eccepire che il trionfo della manodopera intellettuale su quella manuale ancora si scontra, perfino nel mondo ricco, con dati che dicono il contrario prospettandoci, addirittura, il ritorno a forme di schiavitù che, nella introduzione a un libro del 2018, Mauro Simonazzi non esita a pronosticare come “uno termini chiave del lessico politico del XXI secolo” nel quale riemergono “nuove forme di schiavitù nel contesto socio-economico (il neoliberismo) e politico-culturale (l’età dei diritti universali) del mondo globalizzato”[4]. Simonazzi ricorda come le ricerche promosse da Kevin Bales[5], consentano di tracciare “una prima distinzione tra vecchie e nuove forme di schiavitù in base a sette caratteristiche. Le vecchie forme di schiavitù sono caratterizzate dalla proprietà legale degli schiavi, da un alto costo d’acquisto, da bassi profitti, dalla scarsità di potenziali schiavi, da un rapporto di lungo periodo, da schiavi mantenuti a vita, dall’importanza delle differenze etniche. Le nuove forme di schiavitù, all’opposto, sono caratterizzate dalla proprietà illegale, da un bassissimo costo d’acquisto, da elevatissimi profitti, da un surplus di potenziali schiavi, da un rapporto di breve periodo e dall’irrilevanza delle differenze etniche”[6]. L’esigenza di eliminare la schiavitù illegale, dopo aver aver messo al bando la schiavitù legale – come ricorda Simonazzi, rifacendosi ancora a Bales[7] -, il diffondersi della manodopera intellettuale, compatibile e intrecciata con forme di schiavitù che si affermano nella globalizzazione, i dubbi persistenti sulla opportunità di estendere o contenere la globalizzazione, le critiche rivolte all’identificazione del nostro presente con la società della conoscenza, che nasconderebbe l’intenzione di affrontare i problemi con ricette di tipo tecnocratico, costituiscono un insieme di questioni che richiedono scelte operative coniugate a processi formativi capaci di orientare il proprio sguardo all’interesse dell’umanità nel mondo.

  1. Il rapporto tra Pubbliche Amministrazioni ed Enti del Terzo Settore

Gli indirizzi sulla formazione espressi nel Pnrr, sono in sintonia con le analisi condotte dalle istanze europee e mondiali richiamate, ne condividono la sensibilità e le tematiche mentre costituiscono una sollecitazione a intervenire sui ritardi di un’economia che fatica a liberarsi da logiche novecentesche. Nella quinta missione, Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo Settore, il Pnrr affronta, con un esplicito richiamo alla cittadinanza attiva, il rapporto fra le Amministrazioni pubbliche e il Terzo Settore. Il documento riconosce che “ancora mancano importanti decreti attuativi al completamento” della riforma, sollecita un’accelerazione dell’iter legislativo e si propone di valutarne gli effetti sul territorio nazionale. Nel frattempo, definisce il campo di un’azione riformatrice che, muovendo dalla formazione alle politiche sul lavoro, intende restituire alle comunità identità e coesione territoriale promuovendo la partecipazione sociale, culturale e imprenditoriale, con particolare riguardo alla qualità della vita, agli aspetti ambientali, ai servizi essenziali, al superamento del divario digitale. In questa prospettiva, il Piano sottolinea l’importanza  di riqualificare le strutture sportive per favorire il diffondersi dello sport di base che costituisce tradizionalmente un fattore di socializzazione e recupero urbanistico delle aree marginali e degradate. Il Piano intende aumentare l’attrattività dei territori spopolati migliorando le opportunità di lavoro per i residenti e per le donne con interventi volti a potenziare i servizi socioeducativi nella fascia 0-6 anni e migliorando l’offerta educativa dai 5 ai 17 anni anche attraverso il contrasto alla dispersione scolastica. Un’attenzione particolare è riservata alle diverse forme di marginalità e alla povertà educativa, soprattutto diffusa nel Mezzogiorno, assumendo l’obiettivo di sostenere 50.000 minori che vivono in condizioni di disagio o a rischio devianza. Inoltre, la quinta missione intende esercitare una funzione educativa anche con azioni esemplari che evidenzino in quali modi possono essere opportunamente impiegati, a favore della comunità, i beni confiscati alle mafie. Iniziative di questo tipo rientrano nel progetto di favorire una diffusa consapevolezza sull’utilità pubblica che deriva dal contrasto alla criminalità organizzata. Nell’insieme, la quinta missione considera cinque aspetti nei quali il Terzo Settore è considerato un interlocutore di cui è richiamata più volte esplicitamente la funzione:la formazione e le politiche del lavoro;

  • i rapporti geopolitici centro-periferia; aree metropolitane-aree interne; nord-sud;
  • le relazioni intergenerazionali e la responsabilità educativa della comunità d’appartenenza;
  • le diverse forme di marginalità;
  • la criminalità.
  1. La presenza del Terzo Settore nel territorio parmense

Nel territorio di Parma, il Terzo Settore, presente con circa mille Enti, ha, per tradizione, risorse e  competenze, la capacità di corrispondere alle attese del Pnrr. Ma è tempo di pensare alle diversità territoriali del Paese e alle criticità in modi trasversali, così da coglierle negli aspetti comuni così da ricondurle a visioni formative d’insieme. Le diverse forme di dipendenza, per non fare che un esempio, richiedono ciascuna interventi specifici, ma una comprensione complessiva delle ragioni che ne sono alla base. In ogni ambito, la formazione è l’esercizio di assumersi la  cura perché la crescita della persona avvenga nel benessere così da poter scongiurare, quanto più è possibile, il pericolo di dover intervenire su condizioni di sofferenza e disagio. D’altra parte, i problemi relativi alla criminalità mafiosa, alla desertificazione delle aree interne, ai rapporti tra centro e periferia nelle aree metropolitane, ma anche, seppure in diversa misura, nelle piccole e medie città, non sono più soltanto una questione meridionale ma un problema del Paese non solo per ragioni di solidarietà, ma anche per come questi problemi si stanno rapidamente diffondendo ovunque. Il Terzo Settore, che nasce dall’iniziativa locale e ha nei singoli Enti elementi di creatività e di originalità da valorizzare superando ogni forma di burocratismo, dovrà rivelarsi capace di uno sguardo generale in grado di affrontare il diffondersi delle criticità come uno degli aspetti tipici della globalizzazione. Ciò che è qui e ora si ritroverà probabilmente ovunque e sempre in un prossimo domani. Mentre continuerà a esprimere la fattiva operosità da cui trae origine, il Terzo Settore dovrà dunque confrontarsi, più di quanto abbia fatto in passato, con una riflessività sul proprio ruolo in un presente nel quale l’altrove, non è più soltanto il mondo al quale riservare generosi aiuti, ma il problema che coinvolge tutti e dal quale non possiamo esimerci. Ma non basta. Per il Terzo Settore non si tratta soltanto di rispondere alla chiamata del Piano nei punti in cui è stato espressamente sollecitato, ma anche nel farsi portatore di proprie autonome proposte e iniziative che riguardino anche altre missioni nelle quali potrebbe intervenire sulla base della propria esperienza. In particolare il Terzo Settore potrebbe essere attivo nella VI missione (Salute) nella quale ha sempre esercitato una presenza qualitativa quanto a solidarietà e professionalità. Un rilevante contributo potrebbe potrebbe offrire anche nell’ambito della digitalizzazione e del turismo (missione 1) e della transizione ecologica (missione 2) grazie al contributo delle Associazione più giovani per costituzione e per composizione degli aderenti.Nel territorio di Parma e nel Paese, l’iniziativa dei giovani nelle Associazioni del Terzo Settore, come nella formazione di start up, che spesso si sono distinte per il carattere innovativo delle proposte, costituisce una ricchezza che merita di essere conosciuta e valorizzata. Dal canto suo il Pnrr non può essere interpretato come una chiamata cui rispondere burocraticamente, ma come un investimento di idee col quale confrontarsi e nel quale depositare ulteriori conoscenze, energie e intenzioni.

[1] https://archivio.pubblica.istruzione.it/buongiorno_europa/lisbona.shtml

[2] Unesco World Report, Toward knowledge societies, Unesco Publishing, 2005, http//www.unesco.org/publications

[3] A.Bosi,  Le politiche educative in un’epoca di cambiamento sociale, in Teresa González Pérez (a cura di), Templos del saper. Discursos políticos y utopías educativas, Marcurio Editorial, Madrid, 2015, pp. 23-46.

[4] M. Simonazzi, T. Casadei, (a cura di), Nuove e antiche forme di schiavitù, Editoriale Scientifica, Napoli 2018, p.9.

[5] K. Bales, 1999, tr. it. I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, Feltrinelli, Milano 2000.

[6] M. Simonazzi, T. Casadei, (a cura di), Nuove e antiche…. op.cit. p. 11.

[7] Ib. p.22.

Dalla stessa sezione