LA SANITÀ CHE RIVOGLIAMO di Piersergio Serventi

di BorgoAdmin

Tre mesi fa la Corte dei Conti scriveva: “Il SSN soffre di una crisi sistemica e non garantisce più alla popolazione un’effettiva equità di accesso alle prestazioni sanitarie”. Un giudizio lapidario, la cui gravità si riassume in poche parole: crisi sistemica e mancanza di equità. Giudizio condiviso da decine di allarmi e dichiarazioni di addetti ai lavori ma, quel che più preoccupa, condiviso da milioni di italiani, soprattutto da anziani con redditi di sopravvivenza, stretti fra liste di attesa e necessità di pagare per curarsi. L’Italia non è tutta uguale. Anche la Sanità non è tutta omogenea. Se la specialistica e la diagnostica ambulatoriale soffrono insieme ad altri settori meno visibili, l’assistenza ospedaliera pubblica e accreditata per acuti, ancora garantisce prestazioni universali, di qualità e talvolta di eccellenza. La situazione dalle nostre parti è sicuramente migliore rispetto alla media del Paese. Tuttavia questo non ci esime dal riflettere sullo stato del SSN, sulle cause profonde e strutturali delle attuali innegabili difficoltà e sulle possibilità di far fronte alle sfide del futuro. Innanzitutto occorre domandarsi: come siamo arrivati a questa crisi sistemica? La risposta richiede realismo, onestà intellettuale e disponibilità a  rivedere, anche autocriticamente per chi ha avuto ruoli di responsabilità, la storia del nostro SSN. I provvedimenti emergenziali del biennio 1992-1994 sono consistiti nella  regionalizzazione e aziendalizzazione del sistema, che ha posto in capo ai bilanci delle regioni il ripiano di eventuali disavanzi. Ne è seguita una lunga stagione, durata fino alla pandemia, nella quale il focus dell’azione di governo e della gestione si sono concentrate sull’obiettivo di erogare i servizi senza compromettere la sostenibilità finanziaria, mediante azioni di razionalizzazione della rete e dell’offerta prestazionale.  In questa corsa alla sostenibilità, il titolare del diritto, cioè il cittadino con il suo bisogno, è passato spesso in secondo piano. Nel frattempo e per di più, con diverse sentenze della Corte Costituzionale (del 1993,  del 2000 e del 2011), tale diritto era diventato non più “fondamentale”, come recita l’art.32, ma finanziariamente condizionato, stabilendo così di fatto la priorità del vincolo finanziario prestabilito, rispetto alla tutela concreta del diritto stesso, a sua volta compresso nei Livelli Essenziali di Assistenza. Essenziali e quindi minimi. La inevitabile e progressiva compressione dell’offerta e quindi l’inevitabile razionamento delle prestazioni, liberava praterie all’offerta privata a pagamento per i più abbienti. Restava da organizzare la domanda e quindi garantire questa offerta, tramite un’adeguata intermediazione finanziaria.  Già nel decreto 502/1992 erano stati introdotti i fondi sanitari integrativi per le prestazioni extra LEA; poi con il decreto 229/1999, che rafforzava l’aziendalizzazione del sistema, i fondi integrativi vennero ulteriormente sdoganati, aprendo la strada all’espansione delle polizze sanitarie e infine al welfare aziendale e quindi, in buona sostanza, ad un rinnovato sistema mutualistico di categoria, tutto privatistico, benedetto dagli stessi sindacati, che erano invece stati protagonisti, negli anni ‘70, della conquista dell’universalismo sanitario e dell’accesso al diritto alla salute uguale per tutti.

Per invertire la tendenza, la prima risposta alternativa alla risposta di destra, non può che ripartire dalla convinzione che non c’è nulla di più intelligente ed efficace, anche dal punto di vista della sostenibilità finanziaria, che il massimo allargamento della base sociale di finanziamento del sistema e cioè la fiscalità generale regolata dal criterio della progressività. A proposito di fisco, Sabino Cassese, dopo aver ricordato, nel suo libro più recente, che l’Italia ha tre grandi questioni, il sud, la sanità e l’istruzione, fa opportunamente osservare che, richiamando il diritto costituzionale alla salute, spesso si trascura di ricordare il dovere costituzionale alla “solidarietà economica e sociale” stabilito dall’art.2 della Costituzione e declinato dall’art 53, con l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva di ciascuno e all’insegna di criteri di progressività.

La seconda risposta, alternativa alle destre, sta nelle scelte sulle politiche di bilancio. A questo proposito c’è una verità, tanto banale quanto incontrovertibile: un sistema sanitario pubblico e universalistico è sostenibile, semplicemente tanto quanto un Paese decide che lo sia. Le risorse straordinarie reperite tre anni fa per contrastare la pandemia ne sono la prova.  L’affermazione da condividere in sanità non è “non si può dare tutto a tutti”, ma è “non si può finanziare col bilancio dello Stato tutto il finanziabile: occorre fare scelte di priorità”. Per le sinistre politiche il welfare deve essere la priorità: sanità e istruzione innanzitutto. Il resto dovrebbe venire solo eventualmente e dopo. La domanda politica è se le sinistre vogliono essere davvero alternativi alle destre e ai liberisti cammuffati da liberali.

La terza risposta consiste nel fatto che la sanità che rivogliamo, non può che ripartire dalla reinterpretazione e attualizzazione del concetto di tutela della salute come diritto di cittadinanza. La tutela non può più essere la semplice difesa dalle malattie.  A questo proposito, introduco un’altra banalità incontrovertibile e lo faccio citando il prof. Ivan Cavicchi, studioso ben noto a chi si occupa di sanità: il modo più efficace per ridurre la spesa sanitaria non è quello di definanziarla a numero di malattie invarianti, ma è quello di produrre più salute, cioè ridurre le malattie e quindi i malati. Ce lo ha sollecitato recentemente anche l’OCSE.

La quarta risposta sta nella riforma dei diversi aspetti della assistenza sanitaria territoriale. Sta nell’intervenire su come la si governa e come la si gestisce per far fronte alla crescita della domanda di farmaceutica, specialistica e ricoveri ospedalieri e quindi alla crescita della spesa.

L’assistenza territoriale si basa, più che sui muri,   sulla capacità  di muoversi e integrarsi  fra operatori dei diversi ruoli e discipline. Sappiamo che anche qui a Parma la nostra Azienda, nella prospettiva della realizzazione degli OSCO e non solo, sta apprezzabilmente pianificando le modalità di scambio operativo fra medici ospedalieri e strutture territoriali. Anche i nuovi CAU funzionano e tutto questo va molto bene. Ma per integrare occorre uniformare a monte le condizioni di lavoro degli operatori, sotto il profilo del loro rapporto col sistema. E questo va fatto a livello statale.   Occorre uniformare i rapporti a livello giuridico e differenziare i trattamenti a livello retributivo, ad es. fra chi non può fare libera professione e chi può.

Ancora: non si rafforzerà la sanità territoriale, se anche le nuove strutture, case e ospedali di comunità, non saranno inserite in Distretti territoriali di nuova concezione. Sindaci, volontariato, operatori devono insieme governare i Distretti. Si tratta anche di ridare ai Distretti quell’autonomia gestionale su base budgettaria che negli anni, a causa della scarsità di risorse di personale, è stata in gran parte sostituita dalla  gestione centralizzata nei dipartimenti aziendali, senza che i sindaci reagissero o magari se ne accorgessero.  Gestione centralizzata resa necessaria dalla rarefazione delle risorse, ma che non favorisce l’efficacia dell’assistenza territoriale. Del pari vanno superate autonomie ospedaliere strutturalmente antitetiche rispetto ad ogni obiettivo di integrazione.

Le nuove ASL a loro volta dovrebbero essere governate da un livello politico istituzionale dotato di poteri deliberanti sull’alta amministrazione: e cioè sui piani sociosanitari, i budget, i controlli interni, la nomina/revoca del Direttore Generale, al quale vanno peraltro riconfermati pieni poteri di gestione.  Occorre uscire da una concezione che ha semplicemente sostituito il “primato della politica”, con il “primato della tecnocrazia”. E non potrebbe anche essere venuto il tempo di cambiare, dopo 30 anni, il nome stesso di aziende che, nel senso comune, evocano un prestazionificio su modello tailoristico, anziché un luogo di presa in carico e cura?

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