COP-27, A TRENT’ANNI DALLA CONVENZIONE. UN RISULTATO STORICO, MOLTI INTERROGATIVI – di Anna Chiara Nicoli

di Redazione Borgo News

A fine novembre si è chiusa la ventisettesima Conferenza delle Parti (COP-27) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC), tenutasi in Egitto, a Sharm el-Sheikh.
Anche la conferenza di quest’anno si è aperta con la presentazione dei dati raccolti dalla comunità scientifica internazionale sul riscaldamento globale, che si attesta, al 2022, su una temperatura media di 1,15° rispetto ai livelli preindustriali, confermando il trend di crescita degli ultimi trent’anni. Si è registrata, altresì, una maggiore incidenza degli eventi climatici estremi, un innalzamento del livello dei mari e della temperatura degli oceani, nonché un aumento della siccità, che ha colpito durante l’estate anche i grandi fiumi europei.
Lo stesso Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, alla cerimonia di apertura della COP-27, per richiamare le parti a collaborare insieme per uno scopo comune, ha descritto l’attuale situazione con un’espressione piuttosto allarmante: “[..]Siamo su un’autostrada diretti verso l’inferno climatico con il piede sull’acceleratore”. Il segretario generale, in continuità con le stime presentate dalla comunità scientifica per gli scenari futuri della terra, ha ribadito, come gli scorsi anni, che un cambiamento positivo è possibile: invertire la rotta è ancora un’opzione praticabile, ma solo sulla base di un’azione climatica “rapida e coraggiosa”.
Ma come sono andati i negoziati della COP-27?

Prima di entrare nel vivo della questione, occorre richiamare alcune premesse.
Al termine della COP-26, tenutasi a Glasgow lo scorso anno, tutti i paesi si erano impegnati nel perseguire due obbiettivi, tanto importanti quanto ambiziosi (il c.d. Glasgow Climate Pact): in primo luogo, mantenere la temperatura della terra sotto 1,5° gradi rispetto ai livelli preindustriali; inoltre, ridurre per il 2030 le emissioni di anidride carbonica del 45% rispetto al 2010. Obbiettivo quasi irrealizzabile – almeno nel breve arco di tempo considerato – per i paesi che, secondo la Convenzione, sono considerati in via di sviluppo; paesi che non hanno fondi sufficienti per finanziare una transizione energetica o Stati, come l’India, la cui economia – in tendenziale crescita – si basa principalmente sull’utilizzo dei combustibili fossili. Il tema cruciale della COP-27 era dunque ripartire dal rinnovato entusiasmo dimostrato in seno alla conferenza di Glasgow per concretizzare in modo più preciso gli impegni presi, in modo che questi non rimanessero semplici dichiarazioni d’intenti. A tal fine, le parti si erano impegnate a presentare, all’interno della conferenza egiziana, gli NDC’s aggiornati (i contributi determinati a livello nazionale), con cui descrivere le misure e le strategie da adottare per raggiungere gli obbiettivi di riduzione previsti dall’accordo.
Inoltre, già da molti anni i paesi più vulnerabili domandano la costituzione di un fondo (il c.d. “Loss and damage”) a carico dei paesi più ricchi e più inquinanti, utile per risarcirli e supportarli finanziariamente a seguito di eventi climatici dannosi dovuti al cambiamento climatico. La costituzione di tale fondo, quindi, determinerebbe l’assunzione di responsabilità delle parti più potenti e più inquinanti della terra (tra cui Stati Uniti, Unione Europea, Cina, Russia) a favore di quelle più povere, meno inquinanti e più colpite dagli eventi climatici avversi.

Il dibattito, già complesso di per sé, si è complicato ulteriormente a causa del conflitto scoppiato tra Russia e Ucraina, a febbraio 2022, a seguito dell’invasione russa nel territorio del Donbass. Il conflitto, oltre ad evidenziare le difficoltà della diplomazia e la debolezza del multilateralismo, ha inasprito le tensioni geopolitiche già esistenti. Appare quasi scontato evidenziare il paradosso di svolgere negoziati internazionali come le COP – in cui sono coinvolte sia la Russia sia l’Ucraina – per discutere di come ridurre le emissioni ed impegnarsi, insieme, per proteggere l’ambiente e il clima – mentre risulta pressoché impossibile, al momento, raggiungere un accordo di pace. La prosecuzione della guerra, peraltro – oltre a provocare morte, povertà, inquinamento – determina una crisi energetica senza precedenti per i paesi dipendenti dal gas russo e ha già rischiato di creare una crisi alimentare internazionale.
Ancora, il conflitto ha reso molto più complessi i rapporti politici tra due grande potenze, come gli Stati Uniti e la Cina, il cui coinvolgimento è essenziale per la riuscita di qualsiasi accordo sul clima; si noti, infatti, che i due paesi, complessivamente considerati, emettono circa il 40% delle emissioni globali di anidride carbonica (dati del database europeo EDGAR).

Per tali motivi, superare le criticità del Glasgow Climate Pact e discutere di finanza climatica – uno dei temi più caldi dell’agenda della COP-27 – si preannunciava, già dagli albori, molto complesso.
In effetti, la conferenza egiziana non ha condotto a particolari novità.
I paesi hanno reiterato l’impegno di riduzione delle emissioni già concordato lo scorso anno; tuttavia, solo una trentina di Stati su quasi duecento ha presentato gli NDC’s aggiornati. Risulta complicato, quindi, valutare il passaggio dagli intenti, lodevoli, alle strategie pratiche di raggiungimento degli obbiettivi.
Ancora, il linguaggio del Glasgow Climate Pact, che rimaneva volutamente ambiguo su una serie di definizioni (a titolo esemplificativo, l’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili “inefficienti”) non è stato in alcun modo precisato, nonostante le richieste in tal senso da parte di molti paesi.
Anche il tema della finanza climatica è rimasto in parte sospeso, nonostante qualche segnale di apertura da non trascurare. Mia Mottley, Prima Ministra delle Barbados e portavoce carismatica dei paesi più vulnerabili, ha sottolineato la necessità di riformare il sistema finanziario, che penalizza i paesi già poveri. La leader ha portato l’esempio della differenza dei tassi di interesse sui prestiti richiesti alle banche internazionali, circa al 14% per le isole Barbados (mentre si attesterebbe sull’1-4% per i paesi più ricchi). Occorre, secondo l’iniziativa lanciata dalla Prima Ministra consentire a tali paesi – maggiormente esposti al rischio d’indebitamento e a potenziali crisi economiche – di accedere a prestiti agevolati destinati alle azioni per contrastare il cambiamento climatico.
I paesi più ricchi parte della Convenzione, d’altro canto, anche quest’anno non sono riusciti a raggiungere la cifra di 100 miliardi l’anno da devolvere ai paesi in via di sviluppo per finanziare il costo della transizione, impegno preso alla COP di Copenaghen nel 2009.
Nota positiva della conferenza è invece il raggiungimento dell’accordo sul fronte del “Loss and damage”.
Per la prima volta dalla storia della Convenzione, infatti, le parti hanno messo nero su bianco l’impegno a costituire un fondo per risarcire i paesi più colpiti dagli eventi climatici disastrosi. Tuttavia, tale impegno risulta essere, al momento, non più che una promessa; le decisioni attuative più importanti, infatti, verranno devolute ad un comitato esterno che, presumibilmente, presenterà le proprie conclusioni alla COP del prossimo anno in Arabia Saudita. Solo allora, quindi, sarà più chiaro quali paesi verranno considerati responsabili dei danni e delle perdite, quali danni potranno essere risarciti e in che modalità, quali saranno i paesi vulnerabili che beneficeranno degli eventuali risarcimenti. Le questioni attuative sono ancora aperte, e non di agevole risoluzione.

In conclusione, la COP-27, pur avendo registrato qualche piccolo passo in avanti, fatica a trovare quello sprint tanto atteso, in primis dalla società civile.
Occorre forse fermarsi a riflettere, a trent’anni della storica firma della Convenzione Quadro, su come è possibile affrontare efficacemente la questione del cambiamento climatico se paiono prevalere, al contrario, interessi che vanno nella direzione contraria alla pace. Come dimostra anche questa COP, infatti, non è possibile discutere efficacemente di clima – un tema che coinvolge tutta la terra – se si fatica a parlare di pace, precondizione essenziale per lo sviluppo umano, sociale, economico e ambientale.
Grandi assenti sul tavolo delle negoziazioni, inoltre – come tutti gli anni passati – rimangono i diritti umani, questione in realtà assolutamente preminente nel dibattito sul riscaldamento globale; si pensi solo al fenomeno delle migrazioni, o all’aumento della povertà e della fame.
Forse occorre riflettere sul fatto che per invertire la rotta sul futuro non basta un’azione climatica, per quanto “rapida e coraggiosa”: serve anche una rapida e coraggiosa inversione di paradigma, prima di tutto politica.

Anna Chiara Nicoli

Dall'ultimo numero di BorgoNews