“AL TERMINE DEL GIORNO”: LA DISCIPLINA DEL FINE VITA FRA CORTI E PARLAMENTI    di Guido Campanini

di Redazione Borgo News

Lo scorso 20 ottobre si è svolto, presso il Centro Pastorale Diocesano, il promo dei due incontri organizzato dal gruppo di Parma del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC – il “ramo intellettuale” dell’Azione Cattolica) su alcune tematiche riguardanti la fine della vita: cure palliative, accanimento terapeutico, sospensione di alimentazione e idratazione artificiale, suicidio medicalmente assistito, omicidio del consenziente… temi che nel pubblico dibattito vanno sotto (l’improprio) nome di “eutanasia”, “buona morte”.   La presidente diocesana del MEIC, Cristina Musi, ha introdotto i lavori, illustrando brevemente dapprima la lunga storia del MEIC, e poi presentando i due incontri che il gruppo locale ha organizzato sul tena della fine della vita, a partire dal titolo proposto, “Al termine del giorno”, inizio dell’inno della preghiera della notte (Compieta). Il giorno che termina è sì quello delle nostre giornate, ma è, nel caso, e metaforicamente, il giorno della vita, quando l’avanzare dell’età o il sopravvenire di malattie o eventi traumatici porta le persone ad avvicinarsi alla morte. Temi, quelli riguardanti la fine della vita, che il MEIC ha affrontato a livello nazionale con due seminari telematici svoltisi all’inizio dell’estate (e al quale ha partecipato anche il prof. D’Aloia, della nostra Università), e che il gruppo locale vuole riprendere in presenza, qui a Parma, appunto con un primo incontro dedicato agli aspetti giuridici e legislativi, ed un secondo dedicato invece agli aspetti medici: secondo incontro che si terrà, sempre nel medesimo luogo, il 18 novembre alle h. 20,45, con relatore il dott, Vittorio Franciosi, medico oncologo.

La relazione della prof.ssa Cocconi è stata ricchissima di riferimenti a diverse sentenze in materia, sia italiane sia di altri Paesi o (nel caso americano) di singoli Stati (New Jersey, ad esempio). Un primo nodo è proprio quello relativo al passaggio da un approccio giurisprudenziale ad uno legislativo, non dappertutto realizzato, e peraltro anch’esso oggetto di discussione. Nel corso del successivo dibattito, è stato posto l’interrogativo, in parte condiviso anche dalla relatrice, se una nuova legge sia necessaria – perché secondo taluni l’attuale normativa è sufficiente – e se sia utile, essendo la casistica in continua evoluzione, e non potendo la norma prevedere tutti i casi possibili, e costringendo comunque i giudici ad intervenire caso per caso, Cocconi infatti ricordava come il giudice di merito, e talvolta anche le Corti, ragioni sul singolo caso, avendo presente la situazione particolare e pressoché unica del caso stesso, mentre la legge per sua natura ha carattere universalistico. Un secondo nodo è il passaggio da decisioni di Corti, in particolare americane, che partono dal principio della difesa della privacy, a decisioni che invece mettono in primo piano l’autodeterminazione del soggetto – come è il caso della Corte tedesca. Cocconi ha però a lungo riflettuto sull’orientamento della Corte italiana, che nella sentenza con la quale ha rigettato la proposta referendaria circa la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, ha chiarito, anche in continuità con sentenze precedenti (per esemio, in materia di aborto), che se il diritto alla vita non può essere considerato un diritto assoluto, sempre prevalente sul principio di autodeterminazione, nemmeno è vero il contrario, perché il diritto alla vita deve essere considerato un fondamento dell’intero impianto valoriale della Costituzione. E pertanto il diritto alla vita può essere negato solo in presenza di precise condizioni, come aveva specificato la stessa Corte sentenziando sul “caso Cappato” (sentenza 242/2019). Come è noto, la Corte ha invitato il Parlamento a legiferare in materia, ed una proposta di legge, che sostanzialmente riprendeva i contenuto della sentenza di cui sopra, approvata da un ramo del Parlamento, è venuta a decadere con la fine anticipata della legislatura. Mentre per la Corte costituzionale tedesca – ha proseguito Cocconi – l’autodeterminazione del soggetto ha un valore insuperabile, per quella italiana, come detto sopra, il principio del valore della vita può essere negato solo in casi particolari, e come extrema ratio, dopo che che altre strade si sono rivelate impercorribili, e la dignità della  vita della persona in questione, a causa di una malattia irreversibile e di una condizione di sofferenza insopportabile, viene a mancare. La Corte ha cioè reso possibile il “suicidio medicalmente assistito”, ossia la predisposizione di un apparato medico che consente la morte del paziente – apparato però che deve essere azionato dalla persona interessata, e non da altri. Medici o parenti. Tale sentenza collide con il codice deontologico dei medici (e prima ancora, col “giuramento di Ippocrate”), tanto che una Comunicazione della Federazione nazionale dell’Ordine dei medici ha cercato di interpretare quanto previsto dal codice deontologico in modo coerente con quanto invece previsto dalla sentenza della Corte, e sempre fatta salva la possibilità di un medico o di un sanitario di rifiutare di intervenire in merito (obiezione di coscienza, espressamente prevista, come è noto, dalla legge 194/1978 sull’aborto).

Un altro tema toccato dalla relatrice è stato quello relativo al secondo comma dell’art. 32 della Costituzione, relativo alla non obbligatorietà di una cura, se non richiesta dalla legge – come a suo tempo è stato il caso dei Trattamenti Sanitari Obbligatori, firmati dal Sindaco o di un suo delegato, o dei vaccini. Tale comma è stato interpretato nel senso della libertà di cura e, appunto, dell’autodeterminazione – anche se la casistica è ovviamente amplissima, e come detto sopra, difficilmente la legge può prevedere tutte le diverse possibili situazioni. Legato a questo argomento, è la discussione – che in Italia è stata al centro del dibattito in occasione del “caso Englaro” – circa il valore terapeutico o di cura della nutrizione e idratazione artificiale in un soggetto privo di coscienza: se cioè possono essere rifiutate, in quanto “cure mediche”, oppure no. Sia nella relazione sia nella discussione sono stati citati anche casi personali, ed è emersa però l’assoluta necessità di creare intorno ai pazienti e ai malati, specie se gravi, una rete che lo sostengo dal punto di vista medico e psicologico, ma anche relazionale e amicale. Ed in primo luogo, più che il consenso informato, che rischia di trasformare il rapproto medico – paziente in un “contratto”, è necessaria la stipula di una vera “alleanza terapeutica”, dove il medico e l’équipe sanitaria si pongono al servizio della persona malata, e questa ripone in essi la piena fiducia. Il principio di autodeterminazione del soggetto – è emerso in sede di dibattito – va interpretato alla luce del principio personalista, per cui nessuno appartiene solo a se medesimo e, anche se non si vuole prendere in considerazione la relazione creaturale con Dio, ci sono sempre altre persone /mogli, mariti, compagni, figli, genitori, parenti e amici in generale, per cui quello che è da combattere prima di tutto è il senso di solitudine e di abbandono da una parte, o l’idea di essere di peso al mondo dall’altra, che portano taluni malati a scelte irreversibili. In questo senso, le cure palliative, ed i luoghi destinati ad accogliere e accompagnare le persone nel loro tramonti, per riprendere il titolo del convegno, sono una modalità che contempera il diritto alla “buona morte” con il dovere della cura della persona, in senso lato, sino alla fine dei suoi giorni. L’hospice delle Piccole Figlie a Parma, come altri in altre città, ne è un esempio virtuoso e da imitare.

 

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