RICORDO DI DON JAMES SCHIANCHI. L’intelligenza e il cuore di un piccolo-grande sacerdote amico di Ennio Mora

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo intenso e affettuoso ricordo di don James Schianchi di cui ricorre in questi giorni il primo anniversario della morte

di BorgoAdmin

 In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. (Matteo 11,25)

Da alcuni anni don James Schianchi viveva nella parrocchia di Santa Maria del Rosario come coadiutore del parroco (un tempo si diceva cappellano): mi confidò che il vescovo gli aveva chiesto  di  dedicarsi  allo  studio  e  che  questo  nuovo  impegno  non  era  compatibile  con  la presenza in una parrocchia grande ed impegnativa, ragion per cui si sarebbe trasferito in una  piccola  parrocchia  di  montagna.  Me  lo  comunicò  con  rara  calma  e  con  disarmante disponibilità. Lo aiutai, con un altro simpatico amico, a fare il trasloco delle sue cose. Fui colpito dalla “miseria” della sua nuova abitazione al punto che l’altro aiutante, non riuscì ad evitare uno sfogo polemico: Don James reagì con un sorriso e lasciò cadere la questione, che avrebbe potuto innescare discorsi piuttosto imbarazzanti. Lo persi di vista, considerato il gravoso impegno di studi, che lo portarono a ben due lauree(se  non  erro  in  materia  di  morale  e  di  teologia: non  ho  mai  approfondito  la  cosa),  e  la distanza territoriale che ci impediva la reciproca frequentazione. Era  nata  un’amicizia  inossidabile:  lui  giovane  sacerdote, io  pre-ju  dell’azione  cattolica.  Mi accompagnò  con tanta delicatezza lungo i  passi della mia adolescenza, ammorbidendo le mie tensioni psicologiche con il suo proverbiale aplomb. Seppe tranquillizzarmi nei momenti più burrascosi, indirizzarmi nel ginepraio morale, rassicurarmi nel percorso di fede.

Lo ritrovai  plurilaureato,  personaggio in  cerca  di adeguata  collocazione  clericale  ed ecclesiale:  un  autentico  tormentone  della  sua  vita  sacerdotale, che  non  trovò  sbocchi confacenti alla sua levatura intellettuale, non certo per colpa sua, ma per la solita burocratica inerzia degli ambienti curiali .Fu  infatti  un  umilissimo (quasi) battitore  libero,  che seguii a  distanza  con  trepidazione  e persino con rabbia nel vederlo sottovalutato e sottoimpiegato. I bene informati davano la colpa al suo sistema nervoso piuttosto portato alla depressione, altri alla sua intemperanza critica  (si  vociferava  ironicamente  che  persino  lo  Spirito  Santo  facesse  fatica  a  cavarsela sotto il giudizio di Don James), altri ancora  alla mancanza di dialogo con i vescovi che si sono succeduti dopo monsignor Amilcare Pasini che era stato il suo talent-scout. Fatto sta che da potenziale vescovo e/o cardinale (amavo definirlo il “Ravasi di Parma”) fu retrocesso a “ciàpa-ciàpa”,seppure di gran lusso della diocesi. Dopo diverso tempo arrivò la nomina a vice-prefetto della Chiesa Magistrale della Steccata, che accettò con rassegnata umiltà  non  senza  qualche  scaramuccia  dialettica(da  quanto  mi  risulta)col  vescovo dell’epoca. In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. (Matteo 11,25)

Mia sorella aveva un debole per le persone intelligenti. Diceva che, quando una persona è intelligente  lo  è  sempre indipendentemente  dal  ruolo  che  è  stata  chiamata  a  ricoprire. Riteneva  convintamente  che  quando  una  persona  è  intelligente  è  più  che  alla  metà dell’opera, perché questa sua qualità, cascasse il mondo, non viene mai meno. Don James faceva indubbiamente parte della categoria e in qualsiasi incarico ricoprisse il fatto emergeva prepotentemente.  Sprizzava  intelligenza  e  cultura  dai  pori  della  pelle,  ma  non  lo  faceva pesare, anzi ostentava la sua profonda e verace umiltà impreziosita da una  dose di sano scetticismo. Anche l’ironia non gli mancava. Ricordo che i primi tempi della sua presenza in Steccata gli chiesi  come  si  trovasse.  Mi  rispose  con  tanta  franchezza: «Sono  qui  a  disposizione  delle casalinghe e accetto di intromettermi, nel mio ruolo di confessore, tra le l oro borse della spesa». E accettò di mettersi qualche volta anche a mia disposizione come confessore. Lo faceva innanzitutto comunicandomi  la  sua  amicizia e  poi  elargendomi  con  discrezione  qualche spunto di riflessione a livello biblico, sorvolando sulle mie croniche debolezze che tendeva a normalizzare. Era  talmente  forte  e  pregnante  la  sua  conoscenza  verso  il  mio  trambusto esistenziale,  che  una  volta  si  dimenticò  di  chiedermi  di  accusare  i  miei  peccati  e  dovetti insistere  per  farlo.  Lasciava  parlare  la  Parola  di  Dio  e  poi  mi  chiedeva  se  avevo  qualche peccato  da  dichiarare:  quanta  sacramentale  forza  di  perdono  e  di  promozione  cristiana riusciva  ad  emanare. Spesso  la  confessione  si  concludeva  nello  scambio  di  affettuose reciproche espressioni amichevoli del tipo “ti voglio bene”. Mi riempiva il cuore umanamente e cristianamente. Conosceva benissimo le mie intemperanze dottrinali e le mie trasgressioni morali eppure, lui,  moralista  accademico ,esperto  di  dottrina, sapeva  comprendermi ed accettarmi, così com’ero: una costante dei miei amici sacerdoti, che ho collocato nel mio olimpo e di cui lui è l’ultimo ospite in ordine di tempo. Mi  chiedeva  con  tanta  delicatezza  della  mia  vita  privata  e  mi  parlava  della  sua:  io  avevo perso mia sorella e lui mi riferiva del rapporto con le sue sorelle. A proposito di sorelle non posso dimenticare il garbo e la delicatezza con cui mi seppe rasserenare l’animo quando gli confidai il dramma interiore del dovere ricoverare in casa di riposo mia sorella per l’epilogo di una malattia inguaribile ed ingestibile. Mi parlò della precedente analoga situazione di sua madre e, a distanza di tempo, della situazione di una delle sue sorelle. Era il miglior modo per esprimermi solidarietà e vicinanza. Quando gli donai il libro sulla vita di mio zio sacerdote, mi chiese di fargliene avere alcune copie da distribuire ai giovani seminaristi, che, a suo dire, avevano bisogno di nutrirsi agli insegnamenti  emergenti  dalla  vita  sacerdotale  di  preti  del  passato,  attualissimi  nelle  loro testimonianze .L’impegno verso i pur pochi giovani in odore di sacerdozio fu molto importante e mi confidò come  il  vescovo  insistesse  per  mantenergli  questo  incarico  nonostante  l’età  che  stava prepotentemente avanzando. «Ormai sono vecchio, mi disse malinconicamente, faccio parte di una generazione di sacerdoti che stanno giungendo al traguardo…». Lo rassicurai sulla sua lucidità e vivacità di pensiero e di parola, ma non gli potei togliere la soma degli anni. Rimase comunque al suo posto. Quando lo incontravo e scambiavamo poche parole mi confermavo nel mio rimpianto per vederlo incompiuto nel capolavoro sacerdotale che avremmo meritato, lui e tutti i cattolici di  Parma.  Mi  dovevo  accontentare,  si fa  per  dire, delle  sue  amichevoli  disponibilità sacramentali,  delle  sue  puntuali  e  scarne  omelie,  dei  suoi  sorrisi  contemporanei  al  mio accesso alla comunione, delle sue parole dolci di cui facevo tesoro. Sì, perché con l’età don James aveva guadagnato in dolcezza. Mi aveva confidato di avere qualche problema di salute, non tale da prefigurare una dipartita così ravvicinata, quasi improvvisa. Se ne è andato in punta di piedi, così come ha vissuto. Dopo la sua morte non mi sento più lo stesso. Mi manca qualcosa. Mi manca l’amicizia di don  James  anche  se  sono  sicuro che  me  la  saprà  manifestare  a  livello di Comunione  dei Santi.)

 

 

 

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