GLI SPAZI DELLA DEMOCRAZIA: PER UNA “GIUSTIZIA GIUSTA”I di Monica Cocconi

di Riccardo Campanini

Propongo alcune brevi riflessioni, senza alcuna pretesa di sistematicità e di completezza, circa alcuni Principi Fondamentali della Costituzione, in materia di giustizia, a partire dai discorsi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della commemorazione del giudice Chinnici e dalla Presidente Emerita della Corte Costituzionale Marta Cartabia. In parte i richiami del Presidente della Repubblica sono stati motivati dalla vicenda del caso Palamara, quelli della Presidente Emerita della Corte sono stati mossi dall’esigenza di un’umanizzazione della pena e da un recupero della sua funzione riabilitativa, in coerenza con il dettato costituzionale. Aggiungo alcune brevi considerazioni sulla questione della necessità di una Riforma della giustizia come condizione per il rilancio del Paese dopo la pandemia e alcune considerazioni sulla cd. Riforma Bonafede sull’ambito di applicazione della prescrizione. E’ evidente che un vero rilancio del Paese, quando l’epidemia Covid sarà finalmente sconfitta, sarà affidata anche ad una riforma seria, profonda e sistemica del funzionamento della giustizia. Una giustizia efficace non è solo un diritto fondamentale per il cittadino – troppo spesso negato – ma è altresì una condizione essenziale per accrescere la competitività del sistema Paese. Non ci può essere un’economia efficiente laddove non vi siano tempi certi di durata dei processi. Lo ha compreso bene la Ue, che ha infatti subordinato l’erogazione del Recovery Fund, cuore del piano Next Generation Eu, all’operatività di riforme strutturali, e in particolare a una «rifondazione» del nostro sistema giudiziario. Per questa ragione il Governo sta predisponendo un Piano straordinario per la giustizia, in grado di far fronte a una situazione di crisi che la pandemia, con il lockdown dei Tribunali e una fase 3 che è entrata a regime solo dopo le ferie di agosto, ha soltanto aggravato, ma che era in crisi già da tempo. In assenza di una rifondazione della giustizia potrebbe addirittura essere compromesso l’accesso stesso dell’Italia al Recovery Fund. Qui però non si tratta di agire unicamente sulla spinta dell’impulso europeo: a sollecitarci dovrebbe essere la volontà di permettere al Paese di uscire dalla peggiore crisi dal dopoguerra. E non lo si può ottenere tale obiettivo senza investire in progettualità e risorse. Si tratta di un’occasione unica che non possiamo perdere.

 

 

  • Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario.

 

Nel 2014, nella Comunicazione Un nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto, la Commissione ha ricordato che il principio dello Stato di diritto «garantisce che tutti i pubblici poteri agiscano entro i limiti fissati dalla legge, rispettando i valori della democrazia e i diritti fondamentali, e sotto il controllo di un giudice indipendente e imparziale». Lo Stato di diritto esige dunque l’indipendenza e l’imparzialità del giudice, e un «controllo giurisdizionale effettivo, anche per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali». Cosa succede se uno Stato membro dell’Unione europea non rispetta i valori su cui si fonda l’Unione? Secondo la Commissione europea è quel che sta accadendo in Polonia dove il partito al potere, Diritto e giustizia, ha avviato una profonda riforma del potere giudiziario. Le nuove misure incrinano l’autonomia e l’indipendenza dei giudici che vengono in varie forme assoggettati al potere politico. Ciò lede il principio di separazione dei poteri, che è uno dei caratteri dello stato di diritto, il cui rispetto costituisce un valore fondamentale dell’Unione (gli altri sono il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dei diritti umani). Il valore dell’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario è contemplato dall’Art. 104, comma 1, della Costituzione che recita: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere».

  • La ragionevole durata dei processi: sempre il Presidente Mattarella ha affermato «Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal ’99. È evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere». L’ordinamento giuridico italiano con l’art. 111 della Costituzione prevede il principio del giusto processo; l’articolo, modificato con la legge costituzionale 1/1999, al secondo comma dispone: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale», e segue, «la legge ne assicura la ragionevole durata». Sono molti i fattori che concorrono alla lunga durata del processo, alcuni di natura organizzativa, altri legati alla necessità di reperimento delle prove e ad assicurare le garanzie per l’imputato. Perciò, risolvere questo problema richiede un’azione su vari fronti e certamente una riflessione pacata di tutti, al di là di ogni appartenenza ideologica. L’obiettivo dichiarato della cd. Riforma Bonafede era quello di ridurre l’eccessiva incidenza della prescrizione sul numero delle anticipate definizioni processuali in appello. Per questo, la legge 3 gennaio 2019, n. 3 (la cosiddetta «riforma Bonafede») ha introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di condanna o di assoluzione pronunciata nel primo grado di giudizio. Il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio ha il merito di limitare la possibilità di prescrizione in grado di appello, al fine di preservare l’attività processuale già compiuta e dell’interesse della collettività a conoscere il risultato della giustizia amministrata a suo nome. Tuttavia, il dato statistico conferma che la percentuale più elevata delle prescrizioni avviene nella fase delle indagini preliminari: sede prediletta in cui, con buona pace del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la prescrizione è divenuta nei fatti un improprio, quanto efficace, strumento per diminuire il carico dei procedimenti delle procure. Una percentuale elevatissima e preoccupante ma che, tuttavia, non sarà minimamente intaccata dal blocco della prescrizione.

Per quanto ovvio, vale la pena di riaffermare che la causa di questa disfunzione non è certo imputabile alla disciplina della prescrizione bensì a carenze di «sistema» e di «organizzazione».

Anzitutto, per funzionare il sistema giustizia esige investimenti di risorse finanziarie da parte dello Stato. Come ha giustamente ricordato il presidente della Corte d’appello di Roma nella sua Relazione annuale, «quel che occorre sono uomini e mezzi, non norme»: più risorse umane (magistrati e personale amministrativo), migliore organizzazione e informatizzazione degli uffici giudiziari.

Se davvero si intende (ma si vuole?) ricondurre il funzionamento della giustizia italiana ai parametri delle garanzie e dell’efficienza richiesti anche dall’Europa non si deve certo iniziare dalla riforma della prescrizione, ma da un’altra prospettiva: occorre individuare ed eliminare, finalmente, le cause strutturali che producono la storica lentezza del processo penale. Basterebbe procedere a poche, ma incisive, modifiche della legge processuale penale (ad esempio in materia di nullità, di notificazioni e di impugnazioni) volte ad abbreviare i tempi di concreto svolgimento dei processi.

Contemporaneamente, non è possibile pensare a una riforma complessiva del processo penale senza dotare il sistema giudiziario delle risorse umane, materiali e organizzative che rappresentano le condizioni imprescindibili per l’effettiva attuazione del principio costituzionale del giusto processo. Su questi aspetti, non su altri, dovrebbe concentrarsi, senza indebite frettolosità, la pacata riflessione di un Parlamento che non intenda tralasciare (se non pagando costi altissimi sul terreno della giustizia) la necessità di un equilibrato rapporto tra termini di prescrizione del reato e tempi di reale durata dei processi penali.

 

  • Certezza del diritto: Il Presidente della Repubblica ha chiesto, inoltre, il rispetto della certezza del diritto. «I nostri cittadini hanno diritto di poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti. Questo vale – a partire naturalmente dalle scelte del Legislatore – per la giustizia civile come per quella penale, per quella amministrativa come per quella contabile: non possono essere costruite ex post fattispecie e regole di comportamento».

A venire in considerazione, in tal caso, è l’Art.25 della Costituzione che, in tal senso, dispone: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».

 

  • Il volto umano della giustizia e le funzioni costituzionali della pena: «La giustizia deve sempre esprimere un volto umano» ha evidenziato la prof.ssa Marta Cartabia. «Ciò significa anzitutto – come dice l’articolo 27 della Costituzione – che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità; ma anche che la giustizia deve essere capace di tenere conto e di bilanciare le esigenze di tutti: la sicurezza sociale, il bisogno di giustizia delle vittime e lo scopo ultimo della pena che è quello di recuperare, riappacificare, permettere di ricominciare anche a chi ha sbagliato».

A venire in considerazione, in tal caso è l’art. 27 della Cost.: «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte».

 

«La Carta tutela tutti, a partire dagli ultimi: poveri, migranti e carcerati», sottolinea Marta Cartabia, secondo cui il carcere deve «rispecchiare il volto costituzionale della pena» ed offrire al detenuto una seconda chance. «Negli anni più recenti la Corte sta sviluppando in particolare tre principi: proporzionalità, flessibilità della pena, individualizzazione. La proporzionalità è contro le pene eccessive, l’individualizzazione è contro le pene fisse, la flessibilità contro le pene che non possono essere modificate nel corso dell’esecuzione».

Dall'ultimo numero di BorgoNews