L’atlante delle frontiere:  confini e muri in un mondo globalizzato

di Riccardo Campanini

L’atlante delle frontiere:  confini e muri in un mondo globalizzato

 Intervista di Gianluca Lottici a Davide Papotti,  Docente di geografia culturale presso l’Università di Parma

Gianluca Lottici: Qualche settimana fa avete presentato, insieme al curatore dell’edizione italiana, Marco Aime, professore di antropologia presso l’Università degli Studi di Genova, il volume Atlante delle frontiere, di Bruno Tertrais e Delphine Papin. La presentazione è avvenuta all’interno delle celebrazioni per il decennale della Biblioteca Internazionale “Ilaria Alpi”, che fa parte del sistema comunale bibliotecario di Parma. Ci puoi dire qualcosa di più su questo libro?

Davide Papotti: L’Atlante delle frontiere, opera uscita originariamente in francese nel 2016, è ora disponibile in edizione italiana grazie ad una meritoria iniziativa della casa editrice ADD di Torino. Gli autori dell’Atlante delle frontiere sono specialisti di geopolitica. Bruno Tertrais, studioso di scienze politiche, è vice-direttore della Fondation pour la recherche strategique; ha collaborato per anni con la NATO e con il Ministero della Difesa francese, ed è autore di numerose opere scientifiche e divulgative, come l’Atlas militaire et stratégique: menaces, conflits et forces armées dans le monde (2008) e La Revanche de l’Histoire (2017). Bruno Tertrais, nello specifico, è l’ideatore del progetto editoriale e l’estensore dei testi, mentre l’ideazione dell’apparato cartografico è di Delphine Papin. La realizzazione delle carte è invece opera di Xemartine Labord. È doveroso segnalare queste informazioni perché l’Atlante delle frontiere è essenzialmente un’opera visuale, che affida alla comunicazione cartografica il cuore del proprio progetto comunicativo. L’edizione italiana dell’opera, come accennavi tu, è stata tradotta da Marco Aime, docente di antropologia all’Università degli Studi di Genova. Lo stesso Aime è anche autore della utile prefazione all’edizione italiana, che inquadra, attraverso numerose interessanti citazioni e riferimenti, il ruolo dei confini e delle frontiere nella storia dell’umanità e negli immaginari territoriali ad essa correlati.

GL: Come è strutturato il libro?

DP: L’Atlante è diviso in cinque sezioni, dedicate a differenti aspetti e valori delle frontiere, intitolate rispettivamente: “Frontiere ereditate”, “Frontiere invisibili”, “Muri e migrazioni”, “Curiosità frontaliere”, “Frontiere in fiamme”. Il volume offre poi una breve conclusione (“Il futuro roseo delle frontiere”) ed un’appendice intitolata “Le 50 linee”, dedicata ad un elenco delle principali linee di difesa che hanno acquisito una precisa riconoscibilità grazie ad un nome ben specifico. A chiudere il volume è la bibliografia che rimanda ai testi citati ed utilizzati nelle trattazioni testuali.

GL: Perché il tema dei confini e delle frontiere è così importante oggi?

DP: Nella sua Introduzione, intitolata significativamente Il grande ritorno delle frontiere, Bruno Tertrais illustra efficacemente la centralità del tema nel dibattito sociale e scientifico contemporaneo. “Frontiere” è infatti ai nostri giorni una delle parole più utilizzate, frequentemente evocate, maggiormente discusse.  Sospesa fra un’eredità storica di significati evocativi (la “frontiera” nel mito americano, nella storia delle esplorazioni, nel significato metaforico di prospettiva futura) e la stringente attualità dei fenomeni di globalizzazione e di mobilità globale, la parola “frontiera” assume significati diversi e cangianti in contesti disparati (il dibattito scientifico, l’arena politica, il linguaggio giornalistico).

GL: Il volume si chiama Atlante delle frontiere, ma stiamo parlando anche di “confini”. Che differenza c’è fra i due termini?

 DP: Nel linguaggio comune infatti i due termini tendono a sovrapporsi, ad essere interscambiabili. In realtà, in geografia, un confine rappresenta una linea (o meglio sarebbe dire un piano, visto che il confine prosegue poi nel cielo – basti pensare agli “spazi aerei” di pertinenza nazionale – ed anche nel sottosuolo – questione che assume una certa rilevanza nei casi di giacimenti di risorse minerarie) che divide due territori statali, cioè una frattura ben identificabile sul terreno. Mentre il concetto di “frontiera” appare più complesso, riferendosi piuttosto ad una fascia territoriale di transizione all’interno della quale si fanno sentire le influenze del confine. La frontiera è una zona più ampia, in cui due “sistemi territoriali” si fronteggiano, con le loro caratteristiche economiche, sociali, culturali.

GL: Non tutti i confini sono visibili sul terreno, però. Perché?

DP: I geografi distinguono tre fasi nella creazione di un confine. La prima fase è la “definizione”, la stesura di un vero e proprio trattato testuale che definisce da un punto di vista legale lo svolgimento territoriale di una linea confinaria, descrivendone attraverso parole il tracciato. La seconda fase è la “delimitazione”, in cui il tracciato di un confine viene messo per iscritto su un supporto cartografico, così come siamo abituati a vederlo nelle pagine degli atlanti geografici: una linea di separazione fra due Stati. La terza fase è la “demarcazione”, cioè la costruzione fisica di elementi di separazione sul terreno (palizzate, muri, reticolati, sbarre, barriere, posti di controllo). Se le prime due fasi sono obbligatorie per l’esistenza di un confine, la terza non lo è; dipende dalla operatività del confine stesso, dalla esistenza di tensioni geo-politiche, di rivendicazioni territoriali, di conflittualità militari, oppure da esigenze di controlli confinari da parte delle forze di polizia.

GL: Eppure oggi i muri si stanno moltiplicando…

DP: Sì, paradossalmente esistono più muri eretti ai confini oggi di quanti non ne esistessero nel periodo in cui uno dei muri-simbolo della storia dei confini, quello di Berlino, fu operativo (1961-1989). Fra le forme operative adottabili da quell’atteggiamento politico che viene oggi definito come “sovranismo” vi è proprio l’erezione, alle frontiere nazionali, di confini fisici, visibili e simbolicamente percepibili. Rappresentano un elemento di alta “mediaticità”, a forte effetti giornalistico sugli immaginari condivisi. Questi muri e reticolati non sono sempre efficaci sul piano concreto nel contenere gli attraversamenti, ma sicuramente hanno un alto valore di riconoscibilità.

GL: Eppure esiste ancora il mito del “confine naturale” per giustificare l’esistenza dei confini

DP: Sì, nella storia il mito del “confine naturale” ha avuto un grande successo. A ben pensarci, nessun confine è “naturale”, nel senso che il confine è una creazione assolutamente umana. Solo ove si stabilisce una giurisdizione territoriale può esistere un confine statale. Se l’uomo non costruisce demarcazioni confinarie, i confini non si vedono sul territorio. I confini rappresentano un elemento di grande visibilità nella cartografia, ma non nel territorio reale. Eppure, nella storia si sono spesso usati, come confini, gli elementi naturali (in primis le catene montuose e i corsi d’acqua) ai quali si è sovrimposta forzatamente una funzione confinaria. Questo uso strumentale di elementi territoriali per simboleggiare un confine politico ha finito per imporsi nell’immaginario condiviso, facendo sì che un confine che si “appoggia” su un elemento della geografia fisica sia considerato “naturale”. I confini naturali vengono contrapposti, nelle classificazioni dei geografi, ai confini “geometrici”, che sono quelli più smaccatamente “astratti” nella concezione, e che si presentano sull’atlante come perfette linee rette (da qui il nome di “geometrici”). Basti pensare ai confini fra gli Stati nell’area sahariana, ad esempio, che sembrano tracciati con il righello. In alcuni casi addirittura i confini seguono la griglia dei paralleli o dei meridiani (un’altra forma di sovrimposizione di una concezione umana alla realtà territoriale), come nel caso dei confini fra gli Stati Uniti ed il Canada, fra le due Coree, fra l’Egitto e la Libia.

GL: Eppure oggi, a fronte della costruzione di muri, si parla anche di dematerializzazione e di disseminazione delle linee confinarie. Che cosa si intende con questi termini?

DP: A fianco della proliferazione di muri, si assiste anche ad una disseminazione dei confini sui territori. Pensiamo ad esempio alla nostra esperienza personale delle linee confinarie. Nella maggior parte dei casi, non avviene sui confini statali, ma nelle forme operative che essi assumono (negli aeroporti, ad esempio). O alle merci che viaggiano sigillate nei camion e poi vengono controllate negli interporti o addirittura soltanto una volta giunte a destinazione. Il confine moltiplica la sua operatività attraverso un’incarnazione in molti luoghi di controllo (un semplice controllo dei documenti per strada da parte di forze di polizia può essere considerato, in un certo senso, un controllo “di confine”, nel momento in cui è teso a verificare la legittimità della permanenza di un cittadino straniero nel territorio di uno Stato).

GL: Insomma, oggi i confini sono un elemento importante per comprendere la globalizzazione?

 DP: Sì, certo, oggi parliamo sempre di più di globalizzazione, ma se pensiamo che esistono, come ci ricorda Bruno Tertrais, 323 confini terrestri estesi su 250.000 chilometri, possiamo ben capire come la gestione operativa di questi confini sia una questione cruciale. Se poi contassimo anche i confini marittimi (e vediamo ogni giorno cosa significa nel Mediterraneo la questione delle acque territoriali, in relazione alle tragiche vicende dei salvataggi delle barche dei migranti che cercano di arrivare in Europa), la faccenda si complicherebbe ancora di più…

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