RIFLESSIONI A CALDO SUL VOTO AMMINISTRATIVO  di Giorgio Pagliari

di Redazione Borgo News
  1. Ha perso la democrazia.

Questo dice il dato dell’affluenza. E questo non evidenzia solo un’Italia, che ha voltato le spalle alla politica dei partiti, ma anche la mancanza di una vera legittimazione popolare dei vincitori delle elezioni. Al riguardo, basta considerare che essere eletti con il 50,1% dei voti espressi in caso di una partecipazione sotto il 50%, ad esempio al 45%, significa essere eletti all’incirca dal 22-23% degli aventi diritto. Il che significa non ottenere il consenso di neanche un quarto del corpo elettorale. Alla lunga, è evidente che così un sistema democratico non regge, se viene meno la legittimazione popolare. La mancanza di quest’ultima, come effetto della scarsa partecipazione al momento elettorale (che è fondativo e determinante di un assetto democratico, del suo consolidamento e della sua conservazione), infatti, apre il varco all’involuzione oligarchica o financo autoritaria, alla via “democratica” alla dittatura. E ciò perché si crea il terreno favorevole all’“uomo della provvidenza”, cioè alla scelta emozionale priva di qualsivoglia valutazione di merito: scenario, che in Italia si è verificato con Mussolini con conseguenze veramente tragiche, ma che si è ripetuto negli anni ’90 e in tempi vicini a noi pur senza colpi definitivi all’assetto democratico del paese, epperò con una progressiva lacerazione di quest’ultimo.

  1. I dati dell’affluenza dicono, altresì, che questa tornata elettorale si è ridotta allo scontro tra lo zoccolo duro dei due schieramenti di centrodestra e di centrosinistra. L’elettorato libero è rimasto a guardare.

Ha vinto il CSX, ma il rischio della vittoria di Pirro è chiarissimo è innegabile. In un simile contesto, infatti, è evidente che tutto è affidato al caso per l’assoluta precarietà della situazione, che è sostanzialmente imponderabile ed estremamente mutevole: si pensi al 40% di Renzi alle Europee 2014, al 33,3% di Di Maio e al 34,7 di Salvini alle ultime Europee. Tutti risultati costruiti dall’estrema mobilità del corpo elettorale; una mobilità “reattiva” che, peraltro, dimostra la fame di Politica causata dalla sua tragica assenza.

  1. Il tratto dominante di oggi, infatti, è proprio questo: l’assenza della Politica, come visione, come progetto, come responsabilità di pensiero e di proposta, nonché come strumento per una sfida – aperta, vera, politica – per ottenere il consenso.

In questa (lunga) fase, infatti, il sistema politico tende ad eludere i cardini della democrazia rappresentativa e si rifugia nel tatticismo esasperato (afono e senza costrutto), facendo ricordare il monito degasperiano sulla differenza tra la visione dello statista (= Politico con la P maiuscola) e quella del politico-politicante (= politico con la p minuscola), cioè tra chi si preoccupa del futuro del paese e chi (solo) del tornaconto elettorale. Il sistema politico, infatti, pensa (= si illude) che la gente si interessi alle polemiche tra leaders o a questioni lontane dalla quotidianità drammatica, dal bisogno, su cui la gente è esclusivamente concentrata, di sapere come si pensa al futuro delle persone nel post-Covid (un’era di difficile decodificazione e tutta da inventare). E già purtroppo si vedono i prodromi dei mesi a venire, nei quali si discuterà del Quirinale e dei sistemi elettorali, con Draghi interprete unico della funzione politica. Per fortuna, sul piano concreto, devo dire da suo sostenitore della prima ora; non di meno, per sfortuna, sotto il profilo socio-politico perché una simile situazione testimonia l’assenza di un attore indispensabile per il gioco democratico: i partiti. Il che, purtroppo, spiega il drammatico livello di astensionismo e chiama i partiti a ritornare a “far politica”, non delegando tale funzione al governo (e, localmente, ai Sindaci). La gente, cerca la Politica, il messaggio di merito di persone autentiche, mosse da ideali, capaci di progettualità, e non esclusivamente prese dalle ambizioni individuali. L’astensionismo è un segno di protesta per la mancanza di tutto ciò, che si traduce anche in partiti, che “studiano” come inglobare il consenso e non come conquistarlo con le proprie proposte. Oggi si pensa ad attirare il consenso “contro”, riducendo tutto a un acritico “siamo meglio noi”: questo può consentire di vincere – come detto – una battaglia, ma non la guerra.

  1. Sul piano partitico, i numeri dei voti dicono che Lega, Fratelli d’Italia e M5S tracollano e che il PD ha vinto.

Considero l’esito una circostanza positiva, ma, se fossi nei dirigenti piddini, non mi lascerei andare ai facili entusiasmi, ma cercherei di capire come approfittare di questo passo falso degli avversari, vittime prima di tutto dei loro errori, per costruire la prospettiva futura su base Politica, cioè strategica e non tattica. Dire, infatti, che è stata premiata la lealtà nei confronti del governo Draghi, è tutto tranne che sufficiente per vincere nel 2023, come è insufficiente ed autoreferenziale (problema atavico) esaltare l’alleanza con il M5S, uscito malconcio da questa tornata: il tema è la proposta e non l’alleanza, cioè la mera sommatoria dei voti, peraltro mai riuscita.         

 

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