La pazienza al tempo della fretta

di Redazione Borgo News

“Le parole sono corpo vivo, che mutano e cambiano significato in lingue e contesti culturali diversi e lontani da noi nel tempo, che non si lasciano costringere per intero ed è avvincente seguirne la storia, perché ogni parola è di per sé tremula e mutevole interpretazione del mondo.”

Su questo assunto ha preso l’avvio il discorso di Gabriella Caramore, docente di religione e comunicazioni e autrice della trasmissione di cultura religiosa su RAI3 “Uomini e profeti”, invitata dall’Associazione Polis nell’ambito degli incontri “Le parole della politica”. E la parola che pone alla nostra riflessione è quella della “Pazienza”. Una virtù civile e non devota che per la nostra lingua trae origine dal latino (patientia) e dal greco (pathos), anche se nella nostra esperienza ha assunto un significato più completo e diverso dalla interpretazione passiva di sopportazione malinconica, di sofferenza, di soggetto che subisce e non agisce mentre è strettamente collegata al tempo di attesa, al nostro futuro. E come ogni virtù contiene in sé anche aspetti del suo contrario, l’impazienza, il coraggio, l’intraprendenza, il movimento, la proiezione verso qualcosa d’altro.

 

Ed anche nel nostro tempo che è caratterizzato dalla velocità, dalla fretta, dalla concitazione dei gesti, dal rapido susseguirsi degli eventi, è possibile rinvenire e creare spazi pazienti per provare a stare al mondo, ed anche la maturità di una politica si può misurare dalla quantità della pazienza. Noi possiamo imparare dalla natura, dal ciclo naturale paziente, il seme, l’albero, il frutto, dalla vita del bambino che giorno dopo giorno cresce, dal tempo degli amanti per incontrarsi, dai vecchi per morire, dalla parola per prendere forma. Appassionante è così la storia dell’evoluzione umana, dell’homo sapiens, dalla nascita dell’utensile e del lavoro, ed anche della difesa e dell’attacco, alla nascita dell’arte o del gioco, come i pittori di Lascaux che con le mani dipingono sulle pareti allisciate delle grotte corpi in movimento, animali al galoppo, trafitti o caduti o semplicemente al pascolo, ma anche forme immaginarie. I pittori di Lascaux inventano una forma nuova di sostare nel tempo, una forma nuova di sapienza del tempo. Nella storia troviamo una larga schiera di figure che tra le loro molte virtù annoverano anche quella della pazienza. Tra queste Ulisse, l’uomo astuto, l’esploratore dei mondi, colui che conosce il dolore del ritorno: la nostalgia. Proprio nel desiderio del ritorno Ulisse sperimenta, più che la virtù, l’arte della pazienza. Nei vari passaggi dell’Odissea gli occorre pazientare per vincere la malvagità del più forte, tenere a freno sia lo sdegno che il dolore e chiedere al proprio cuore che geme e si lamenta di sopportare paziente. Nella Bibbia la pazienza viene detta in greco “makrothymia”, una parola larga , piena, generosa, che indica “larghezza di cuore”, ed è l’attributo che viene conferito al Dio biblico. Un Dio misericordioso e lento all’ira, ricco di grazie e di fedeltà che conserva il suo favore per mille generazioni. Così la pazienza di Mosè , che si fa mediatore tra il Signore e il suo popolo, e diviene, lui balbuziente, bocca della legge divina. Lui il più grande di tutti i profeti che muore in solitudine: davanti agli occhi la distesa del paese della promessa il cui accesso solo a lui è vietato. Mosè non grida come Giobbe, non protesta, non chiama Dio a giudizio, ma neppure chiede il perché. E possiamo forse capire la sua morte se guardiamo a Mosè come umile servitore di un popolo, di un destino, di un Dio, a cui aveva dedicato tutta la sua esistenza che possiamo leggere alla luce di due parole, pazienza e speranza. Infine il Christus patiens, la vicenda terminale, tragica di una vita di un uomo “patiens”, mite che ha testimoniato il bene. Sulla croce tutto sembra finito, finito il suo avere a cuore più di tutto la vita e il destino dei miseri e derelitti, dei peccatori, degli sconfitti. Eppure qualcosa rimane, qualcosa ritorna, qualcosa sopravvive in un nuovo inizio. Ma Gesù ha parlato la lingua dei profeti, una parola irrequieta, vagabonda , in cerca di ascolto e di risposta, parole veloci e spesso dure. Anche al tempio parole spazientite e gesti di collera. Pian piano, in maniera molto netta la pazienza di Gesù si delinea come dimensione attiva, non passiva sottomissione ,ma scelta consapevole che mostra come nella vita bisogna scegliere da che parte stare, un giudizio urgente su chi si prende cura dell’altro e chi non se ne prende cura.

In tutti i tempi la pazienza è stata considerata una virtù, a lato delle grandi virtù cardinali e teologali, ma ha avuto un ruolo robusto nel fortificarle. E’ stata sempre ritenuta necessaria alla sapienza, perché lento, umile, faticoso e prudente è il lavoro della conoscenza, basilare anche per la giustizia e obbligatoria per la forza, vicina alla temperanza, che richiede una giusta misura delle cose e l’esercizio della regolatezza. Ma soprattutto la pazienza, con la generosità e il dono di sé, alimenta le virtù teologali, che Paolo chiama “le tre cose che restano”, soprattutto la speranza, che è la roccia su cui poggia l’atteggiamento paziente.

In conclusione del suo itinerario, Gabriella Caramore suggerisce che forse nel nome di cura sta la possibilità, oggi, di aprire un nuovo fronte della pazienza. Anche nell’età della fretta e dell’accelerazione, della indistinzione, “aver cura” può essere il modo di spostare il conflitto tra pazienza e impazienza da una dimensione temporale a un piano di qualità morale, di un esercizio di umanità che trova il suo orizzonte e il suo limite nell’altro, che come noi è vivente: nella limitazione e nella gloria, nel desiderio e nella speranza. La piccola “qualità paziente”, così sdegnata dalla vuota frenesia del secolo, si fa strada in mezzo alle incertezze e comprende che deve farsi materia viva dentro un progetto che contenga l’altro come suo orizzonte e suo fine.

Graziano Vallisneri

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