GLI SPAZI DELLA DEMOCRAZIA: LAVORO E SVILUPPO di Federico Ghillani

di Riccardo Campanini

Prosegue la pubblicazione delle tracce di lavoro predisposte in occasione dei Laboratori “Gli spazi della democrazia” che si sono tenuti nella sede del nostro Circolo  durante il Festival della Democrazia. Presentiamo di seguito le tracce preparate da Federico Ghilani su “Lavoro e sviluppo” e da Monica Cocconi per il Laboratorio sulla “Giustizia giusta”,  che non si è potuto svolgere a causa della pandemia.

Non c’è alcun dubbio che l’emergenza Covid abbia colpito maggiormente i più esposti (vedi allarme Caritas sull’aumento delle situazioni di marginalità), ma mentre ci si confronta col quotidiano cercando di dare risposte emergenziali occorre anche provare a guardare oltre, partendo realisticamente dal fatto che in occasione di altre crisi come quella della bolla speculativa si diceva che tutto il sistema sarebbe cambiato e invece non è cambiato nulla e la cosiddetta “finanza creativa” continua a causare squilibri mondiali.

Le conseguenze della pandemia ci hanno fatto rilevare con chiarezza che i limiti del nostro sistema economico che in tanti andavamo denunciando da anni stanno ancora tutti davanti a noi poiché spesso, appena i dati migliorano un po’ si fugge dai problemi e tutto riprende come prima senza fare tesoro dell’esperienza.

Nonostante nel 2019 fossimo di fronte a performance dell’economia quantitativamente buone, già si evidenziava un significativo degrado circa la qualità del lavoro e conseguentemente del tessuto sociale che su di esso si fonda. Per poter abbozzare giudizi occorre prima conoscere, e ciò comporta anche la lettura attenta almeno di alcuni dati, avendo chiaro che la crisi individualistica che oggi registriamo è anche crisi spirituale cui le questioni materiali sono collegate, per cui la povertà è presente tanto nei lavoratori che negli imprenditori; l’emergenza acuisce infatti il bisogno di comunità mentre l’individualismo rischia di allontanare da essa verso forme di protesta sterile o peggio lo scoraggiamento specie nei giovani.

Dai dati dell’Emilia Romagna del periodo gen-giu 2020 confrontati su 2019 risultano 165 milioni di ore di C.I.G., pari ad un aumento di +13 milioni di ore a Parma che nel 2010 faceva registrare solo 1 milione di ore. Quindi nel 2020 a Parma se ne registrano 9 milioni e mezzo, e nel periodo aprile-giugno 2020 si è assistito ad un aumento pari a +40% di ore.

Per ora il blocco dei licenziamenti ha evitato il peggio, ma le donne e i giovani hanno perso molte ore di lavoro in particolare nel mondo della cooperazione.

Secondo alcuni a novembre – dicembre ne vedremo le conseguenze, ma solo l’alimentare e la metalmeccanica ad esso connessa hanno tenuto, anche se i magazzini risultano pieni e il Covid sembra aver fermato proprio quell’export che costituiva la nostra eccellenza insieme a tutto il settore della ristorazione.

Di conseguenza anche nei servizi privati si registrano grandi sofferenze, specie nelle cooperative, anche per diminuzione degli utenti. I servizi ambientali hanno tenuto e il settore educativo sembra stia ripartendo. Soffrono invece cultura, sport, cinema con stagionali e contratti, ma anche tutti gli artigiani, mentre tessile e moda sono in ginocchio.

Più grave è pensare a come saremo tra due mesi nel caso si registri un aumento dei contagi.

A livello nazionale i 200 miliardi del Recovery Fund saranno disponibili tra alcuni mesi a tranches, ma presumibilmente a novembre vivremo il momento della verità.

 

L’interrogativo di fondo a questo punto può essere individuato nel dilemma che si ripresenta tra Ripresa (recovery) e Riforma (reform), e più in generale si impone la necessità di una riflessione sul modello capitalistico che non da oggi sembra aver iniziato una seria autocritica (Financial Times) arrivando persino ad ipotizzare la necessità di una auto-riforma.

Il ciclo economico positivo del 2° trimestre 2020, infatti, è stato  buono, ma non per tutti, in quanto è stato caratterizzato da bassa crescita e aumento delle diseguaglianze, bassa occupazione e bassi salari in quella che gli economisti americani ispirandosi alla famosa favola chiamano “economia di Riccioli doro”: la minestra che la bimba sceglie tra quelle che trova pronte nella casa dell’orso non è infatti né troppo calda né troppo fredda, ma tiepida.

Per molti quindi è già sufficientemente chiaro che per risolvere i problemi che abbiamo di fronte la RIPRESA non basta più, e occorre imboccare con decisione la strada della RIFORMA. Sembra sia d’accordo con questa lettura anche papa Francesco che nella sua ultima enciclica scrive rispetto alla situazione mondiale: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà.” (Fratelli tutti n°7).

 

Dalla difficoltà con la quale l’Europa è riuscita a costruire quella coesione e quel coordinamento che oggi è imprescindibile per affrontare la sfida dell’emergenza pandemica, è emerso con chiarezza quanta strada abbiamo di fronte se vogliamo cambiare paradigma. E pensare che per l’Europa si è trattato dell’ultima occasione di riscatto rispetto a nazionalismi e populismi oggi dilaganti, per cui occorre capire che da questa impasse si esce solo con gli stati uniti d’Europa o c’è il rischio serio di perdere il filo del cammino iniziato dai nostri padri fondatori. Per fortuna siamo arrivati a decisioni importanti come la sospensione del Patto di Stabilità, i 150 miliardi investiti su economia e sociale, i 240 miliardi per gli investimenti strutturali, i 100 miliardi per combattere la disoccupazione, mentre attendiamo decisioni più serie relativamente al MES che ci potrebbe aiutare a sostenere ulteriormente l’impatto che l’emergenza ha sul sistema sanitario.

In Italia come siamo in molti a richiedere l’apertura di un Patto sociale per concordare come investire nei nostro Piano Nazionale di Riforme 2021-2023 i 750 miliardi del Recovery Fund, cifra proposta dalla Commissione Europea e difesa con coraggio solo da Francia Germania e Italia, mentre nella regione Emilia-Romagna si stanno facendo più velocemente passi avanti nel Patto che ha come obiettivi sostenibilità, sociale, ambiente e legalità, consapevoli che, come qualcuno ha affermato “le emergenze svelano la natura autentica delle società e delle economie”.

Quello che tuttavia si sta registrando è un notevole ritardo nella consapevolezza circa la necessità di prevedere le ricadute che l’emergenza avrà sulle economie, e non solo a livello europeo ma a livello mondiale. Il coordinamento del G20, specie dopo la dannosa apertura causata da Trump della guerra Usa/CINA sembra scomparso proprio mentre sembra sempre più necessario.

Quale politica economica dunque per costruire una possibile uscita. Sostanzialmente solo l’adozione di serie politiche monetarie e di politiche di bilancio sembrano costituirne la risposta, ma mai una senza l’altra! Grazie alla saggia gestione operata della BCE infatti abbiamo immesso sufficiente “olio nel motore” delle nostre economie attraverso i 2-300 miliardi di titoli statali acquistati da parte della banca europea, ma da sola tale misura non basta. Occorrono infatti serie politiche di bilancio per affrontare l’emergenza, sostenere la ripresa ma anche e soprattutto investimenti strutturali a lungo termine che consentano di preparare il futuro.

La questione del debito, che spesso rischia di fungere da palla al piede rispetto ad ogni scelta strategica, va affrontata anch’essa adeguatamente dicendoci, come ha saggiamente affermato Mario Draghi, che siamo in guerra e che quindi per non saltare si deve poter fare debito, come ha fatto il nostro paese con una manovra da 55mld in altri tempi impensabile, ma occorre anche pensare a misure adeguate per cominciare almeno a ristrutturare quel debito che ammonta ormai al 320% del PIL, prendendo ad esempio la riforma adottata a suo tempo in America dal presidente Roosevelt col famoso New Deal che comprendeva due condizioni oggi divenute ineludibili a livello mondiale: la prima quella tesa a regolamentare quei mercati finanziari che muovendo capitali in modo speculativo hanno continuato a danneggiare l’economia reale, stabilendo in particolare la separazione netta tra banche d’affari e banche commerciali, la seconda per recuperare l’intervento statale nella politica industriale verso un’uscita non solo monetaria ma attraverso un patto sociale capace di mobilitare le risorse umane ed economiche oggi necessarie.

Infatti da 20-30 anni è stato di fatto rotto quel patto sociale non scritto che diceva che capitale e lavoro dovessero condividere obiettivi e benefici; infatti, mentre i benefici sono andati solo ad alcuni, non c’è stata alcuna condivisione neppure degli obiettivi. Oggi per ridefinire il rapporto tra capitale e lavoro quindi sono quanto mai più necessarie relazioni industriali di tipo partecipativo sollecitando in tal modo una mobilitazione di risorse che potrebbe essere di due tipi: una per così dire strategica mediante l’impiego diretto, già presente in alcuni settori come quello bancario, dei risparmi dei lavoratori che, dai soli conti correnti aperti risulta essere di circa 1200 miliardi di euro, ma anche delle risorse investite nei fondi pensione negoziali da investire in uno sviluppo virtuoso dell’economia, e una che potremmo definire diretta tesa alla revisione dell’organizzazione del lavoro rispetto a sicurezza, orari, utili e obiettivi, costruendo in tal modo un’enorme risorsa civica capace di imprimere una svolta al paese e nel contempo liberando i singoli dalla loro solitudine. Sembra ormai giunto il tempo infatti di superare i colpevoli ritardi del nostro paese circa l’effettiva realizzazione di quanto i nostri padri costituenti avevano già inserito in Costituzione con l’art. 46 riconoscendo “il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende” per raggiungere quelle relazioni industriali mature che com’è noto ormai a tutti stanno dando una marcia in più all’economia tedesca, grazie proprio alla cogestione in atto sin dal dopoguerra.

 

In questo modo, proprio a partire dalle crepe del modello economico attuale è possibile costruire a lungo termine una nuova epoca di crescita e sviluppo. Viviamo infatti in un angolo di paese che grazie soprattutto alla sua vocazione agroalimentare e manifatturiera riesce nonostante tutto a vivere condizioni migliori, non senza che si registrino costanti e preoccupanti arretramenti in termini di qualità della vita e aumento delle povertà, ma ci illuderemmo se pensassimo che senza urgenti scelte di lungo respiro possibili solo a livello europeo e mondiale per le quali occorre continuare a lavorare e a fare cultura, sia possibile continuare a salvarci da soli dai possibili scenari di arretramento economico e sociale, e questo impegno ci è chiesto soprattutto per costruire speranze non illusorie per le giovani generazioni, perché non è solo parlando di essi che si costruisce realmente le possibilità per il loro futuro.

Dall'ultimo numero di BorgoNews