DESMON TUTU: “I WISH I COULD SHUT UP, BUT I CAN’T, AND I WON’T” “ (VORREI TACERE MA NON POSSO E NON LO FARÒ” di Veronica Federico Docente di Diritto Pubblico all’Università di Firenze Research fellow alla Università di Witwatersrand, Johannesburg, dal 2000 al 2005. 

di BorgoAdmin

 

          Cape Town, 26 dicembre 2021 – Si è spento un gigante della lotta contro l’apartheid, l’Arcivescovo Desmon Tutu. Aveva 90 anni. Figlio di un insegnante e di una domestica, era nato povero nella provincia del Transvaal, uno dei territori riservati alla popolazione africana nel Sudafrica dell’aparthied. E’ stato il primo Arcivescovo nero a capo della Chiesa anglicana sudafricana. Ha vissuto tutta la storia recente del suo Paese da fiero oppositore dell’apartheid, a cominciare dalla rinuncia all’insegnamento nel 1953, quando il governo con il Bantu Education Act aveva relegato tutti gli studenti non bianchi in un sistema scolastico separato ed inferiore. Per lunghi decenni, nascere con la pelle nera in Sudafrica aveva significato la violazione sistematica dei diritti fondamentali: dalla segregazione urbana alla negazione del diritto di voto, dall’obbligo di lasciapassare interno (l’odiato ed avversato pass) al divieto di matrimoni ed anche di relazioni interraziali, dallo sfruttamento economico alla negazione della cittadinanza. Contro tutto questo si era battuto. Tutu riassumeva la lotta anti-apartheid in una semplice, disarmante ma perentoria richiesta al governo di Pretoria: “Tutto ciò che vi chiediamo è di riconoscere che anche noi siamo umani”. Da oppositore, fu arrestato più volte, ed il passaporto gli fu revocato in diverse occasioni, sorte comune a tutti i combattenti per un Sudafrica democratico.

Tutu, da uomo di fede, si era opposto, però, con eguale forza, alla lotta armata dei movimenti di liberazione nazionale, schierandosi apertamente contro le pratiche di linciaggio nei confronti dei collaborazionisti che tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’90 avevano insanguinato le townships sudafricane. Praticava e predicava una lotta nonviolenta all’apartheid, ma senza compromessi. “Il razzismo è peccato. E’ contrario al volere di Dio. E’ un affronto alla dignità umana e una grave violazione dei diritti umani”. Nel 1984, proprio negli anni più duri della lotta politica, segnati da continui stati di emergenza, dall’inasprimento della legislazione dell’apartheid, dalla persecuzione contro gli oppositori e dalla continua, sistematica e capillare violazione dei diritti fondamentali della popolazione non bianca, Desmon Tutu fu insignito del Premio Nobel per la Pace. Nel 1993, pochi anni dopo, ma in uno scenario completamente differente, il Nobel per la Pace di nuovo arrivò in Sudafrica a rimarcare il sostegno internazionale al processo di transizione democratica, e fu attribuito congiuntamente a Nelson Mandela, liberato solo l’anno precedente dopo 27 anni di carcere, e a Frederik de Klerk, allora Presidente Sudafricano.

Quello attribuito a Tutu, invece, era stato un atto politico forte, in un clima internazionale in cui le grandi potenze occidentali ancora sostenevano, direttamente o indirettamente, il Sudafrica dell’aparthied perché funzionale a logiche geopolitiche e ad interessi economici che prescindevano dal valore della tutela di diritti fondamentali e dignità umana. Il Nobel a Tutu, “for his role as a unifying leader figure in the non-violent campaign to resolve the problem of apartheid in South Africa” divenne uno strumento forte di lotta sia a livello interno sia internazionale, che l’Arcivescovo utilizzò abilmente. E finalmente a 62 anni, nell’aprile del 1994, votò per la prima volta, nelle storiche elezioni che segnarono, definitivamente, la fine dell’aparthied e l’avvento del “nuovo” Sudafrica democratico. Soltanto una grande fede, in Dio e negli uomini, ha permesso all’Arcivescovo di presiedere, dal 1995 al 1998, la Truth and Reconciliation Commission, la commissione a cui la Costituzione aveva attribuito il compito di “fare i conti con il passato” in maniera alternativa tanto alla via giudiziale quanto alla via dell’amnistia totale. Ispirandosi ai valori dell’Ubuntu, ovvero ai principi fondamentali del fare società propri ai popoli dell’Africa australe, che si possono riassumere nella massima Zulu “umuntu ngumuntu ngabantu” ovvero qualcosa di simile a “le persone sono persone attraverso altre persone”, la TRC rappresentò il tentativo di mettere in pratica un’idea di giustizia riparativa o rigenerativa, secondo cui chi si era macchiato di crimini di matrice politica da ambo i lati, rivelando la verità dei fatti, poteva ricevere un’amnistia totale o parziale. La Commissione ricevette 7000 richieste di amnistia e condusse 2500 audizioni in tutto il Paese. Il processo non fu lineare e la TRC, il suo operato ed anche l’Arcivescovo furono oggetto di aspre contestazioni, ma senza dubbio è stato un tassello fondamentale nella transizione democratica e nel processo di creazione di una nuova comunità politica.

Tutu era rimasto uno spirito libero. Di fronte alla crescente corruzione dell’elite politica ed economica del nuovo Sudafrica non ha esitato ad esprimere giudizi assai severi e ad esortare i Sudafricani a continuare a mobilitarsi nella lotta per l’affermazione dei diritti. Anche all’interno della Chiesa era stato un innovatore. Già all’inizio degli anni’60 chiamò le donne all’altare nella celebrazione dell’Eucarestia; fu lui ad ordinare, nel 1992, i primi sacerdoti anglicani donna in Sudafrica e, più recentemente, auspicava che la Chiesa anglicana permettesse alle persone omosessuali di accostarsi alla comunione. “Non vorrei adorare un Dio omofobo”. Ricordare Desmon Tutu significa rendere omaggio ad un uomo straordinario, coraggioso, di grande fede, di fine intelletto e di travolgente ironia. Una volta morto, usava dire, il diavolo sarebbe andato a bussare alla porta di San Pietro recriminando: “Hai mandato Tutu giù al caldo, sta causando troppi problemi laggiù! Sono venuto a chiedere asilo politico”. Hamba Kahle Arch!

 

 

 

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