Concilio, che cosa ho visto al Massimo

di BorgoAdmin

Spesso parliamo del popolo di Dio ma fatichiamo a vederlo concretamente. Dove sta? Com’è composto? Che cosa spera? Che cosa teme? Altrettanto spesso all’immagine di popolo di Dio si sovrappone l’immagine della Chiesa istituzionale e gerarchica, che nasconde i volti delle persone con i volti del potere e i tratti dell’organizzazione burocratica. Sabato 15 ottobre a Roma, all’auditorium dei gesuiti dell’Istituto Massimo, il popolo di Dio si è invece visto in tutta la sua consistenza. All’incontro Chiesa di tutti, Chiesa di poveri (dove erano attese circa quattrocento persone e ne sono arrivate il doppio, da ogni angolo d’Italia) non è avvenuto nulla di eccezionale: non ci sono state manifestazioni eclatanti, non sono risuonate parole d’ordine e nessun personaggio si è impadronito della platea. C’è stato, semplicemente, un confronto fraterno tra persone unite da una fede e da una passione. La fede nel Cristo dei poveri e degli oppressi, la passione per la giustizia e per la Chiesa del Concilio Vaticano II. Dalle dieci del mattino alle sei di sera il confronto è andato avanti sereno, serrato, sincero. E alla fine il popolo di Dio è tornato alle proprie case rinfrancato, non esaltato, non sovreccitato, ma semplicemente consolato da tanta partecipazione e da tanta condivisione. E ancor più determinato a proseguire nel cammino.
Sul palco non c’erano monsignori di curia, vescovi o cardinali. Non ce n’erano neppure nella prima fila dell’affollatissima platea, come di solito succede nei convegni organizzati dalle strutture ecclesiali. Né c’erano politici o altre autorità. Non si sono viste auto blu né tonache nere filettate di rosso. Qualcuno ha lamentato la mancanza di telecamere, ma in fondo è stato meglio così, perché il clima di familiarità ne ha guadagnato. Promosso da decine e decine di realtà cristiane che si spendono quotidianamente nel mondo, in mille forme diverse, nello spirito della Gaudium et spes, condividendo sogni e paure, speranze e angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo, l’incontro ha preso ispirazione dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, ma soprattutto è stato esso stesso un momento conciliare.
Le parole con le quali Giovanni XXIII aprì il Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, sono risuonate più volte, specie nella relazione introduttiva della teologa Rosanna Virgili, e hanno fatto da sfondo all’intera giornata: anche nel momento della critica e della contestazione, l’orizzonte è rimasto quello della fiducia e della gioia. Nessuno ha parlato “contro”. Ogni parola è stata spesa “per”. Per una Chiesa veramente dei poveri e con i poveri. Per una Chiesa del Vangelo. Per una Chiesa “sciolta”, come amava dire il cardinale Martini. Per una comunità di fedeli adulti, obbedienti stando in piedi, come diceva Scoppola.
Grazie all’inquadramento storico di Giovanni Turbanti e all’analisi di Carlo Molari sulle diverse interpretazioni del Concilio, è stato possibile impostare il confronto su basi solide. La riflessione di Molari sull’idea di tradizione, in particolare, è stata efficace e piena di spunti bisognosi di ulteriori approfondimenti. L’idea di tradizione uscita dal Concilio, come realtà vivente e come processo (si veda la Dei Verbum, 8) merita di essere meditata nel momento in cui dentro la Chiesa cattolica si assiste all’offensiva, non soltanto da parte dei cosiddetti tradizionalisti, di chi vede nella tradizione l’immobilità e l’immutabilità (Semper idem era il motto del cardinale Ottaviani, grande oppositore dello spirito conciliare). Ma l’incontro, soprattutto, ha evitato di cadere nella disquisizione accademica circa le diverse ermeneutiche (continuità o rottura?), preferendo dare come asserito che nel Concilio ci fu sia la continuità sia la rottura, sia la riaffermazione delle verità fondanti sia la necessità di proporle meglio, più genuinamente e più efficacemente, in relazione ai nuovi tempi. Nello studiare un Concilio che Giovanni XXIII volle pastorale e non dogmatico sarebbe veramente un controsenso alquanto bizzarro, mezzo secolo dopo, arenarsi attorno a una questione che rischia di cadere nel formalismo.
Il Concilio lo si capisce e lo si interpreta a partire dai mondi vitali, non dalle formule, e sono stati proprio i mondi vitali a fare irruzione nel convegno con tutta la loro carica di verità, spesso sofferta. Come quando è intervenuto il padre Felice Scalia, apprezzato da tutti per la sua sincerità nel delineare il dramma attraversato dalla Compagnia di Gesù, visto che per alcuni dei suoi membri la fedeltà al Concilio e lo schierarsi con i poveri ha voluto dire da un lato andare letteralmente incontro al martirio e dall’altro affrontare la spaccatura con la gerarchia. E ugualmente appassionato è stato l’intervento del rappresentante di un gruppo che riunisce omosessuali cristiani.
Se dom Giovanni Franzoni è salito sul palco per ricordare il tempo in cui Paolo VI, spogliandosi del triregno, non fece soltanto un gesto all’insegna della povertà e dell’aiuto verso le Chiese più bisognose, ma volle dichiarare anche visivamente la rinuncia a ogni forma di potere temporale e di seduzione di quel tipo di potere sulla Chiesa, altri testimoni del Concilio, come Luigi Bettazzi e Arturo Paoli, hanno mandato messaggi.
Il nome del cardinale Martini è risuonato spesso, fin dai saluti introduttivi di Rosa Siciliano, direttrice di Mosaico di pace. E in generale la definizione di “piccolo gregge”, tanto cara a Martini, può essere utilizzata per esprimere lo spirito dell’assemblea, animata dalla volontà non di contarsi per contare, ma di spendersi nel mondo, ovunque ci sia da chinarsi su una ferita e su un’ingiustizia.
Nella sua semplicità, lo spirito del Concilio è stato rievocato con grande efficacia da Paolo Ricca, che ha ricordato tutto lo stupore e la meraviglia dei protestanti quando si resero conto di essere passati dallo status di eretici a quello di “fratelli separati”, nella cui esperienza di fede i cattolici possono ritrovare elementi di verità utili per la salvezza. E piena di suggestioni per il futuro è stata la relazione di Cettina Militello sulle prospettive di un vero aggiornamento.
L’intervento finale di Raniero La Valle, giocata sulla necessità di uscire dalla contrapposizione tra le varie ermeneutiche del Concilio per fare piuttosto del Concilio l’ermeneutica alla luce della quale interpretare la stessa storia della Chiesa, è suonato non tanto come chiusura ma come premessa di altre tappe.
Il titolo dell’incontro è stato preso dal radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Ha scritto Bettazzi nel suo messaggio: “La sollecitazione per la piena attuazione del Concilio è affidata al popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio. Che la vostra premura di popolo di Dio possa influire sul sinodo episcopale dell’ottobre e su tutto l’anno della fede”.
Recitando la preghiera composta da Marco Campedelli della Comunità San Nicolò di Verona, il popolo di Dio si è espresso così: “Continua a soffiare, vento dello Spirito, nuova Pentecoste sul mondo, continua a inventare lingue nuove, alfabeti inediti, capaci di tradurre le sorprese di Dio. Non è la Chiesa che vogliamo celebrare, ma lo Spirito di Dio che soffia in mezzo al mondo. Chiesa di tutti, Chiesa di poveri”.
Il popolo di Dio si è riunito. In libertà, senza ipocrisie. Si è confrontato con fiducia, senza calcoli dettati dall’opportunismo, senza prudenze innescate dalla paura, senza equilibrismi dovuti ai giochi di potere. Lo Spirito ha soffiato.
Aldo Maria Valli

Dall'ultimo numero di BorgoNews

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